Petroglifos
Petroglifos è una collezione di graffiti preispanici del Venezuela. Molti di loro sono stati trovati incisi nella pietra. Ogni icona è una accurata rappresentazione di questi segni ancestrali, spiega Myfonts. Il disegnatore è John Moore. La data è il 2012. La fonderia è la John Moore Type Foundry. Il prezzo indicato è meno di 15 euro. Nel font ce n’è uno per ogni lettera dell’alfabeto maiuscola e minuscola, numero o segno di interpunzione.
A me ricordano i graffiti della Valcamonica. Però non credo che qualcuno in Italia ha avuto l’idea di passarli in un font. Non deve essere una cosa particolarmente complicata, tenuto conto che nei normali alfabeti una lettera leggermente più scura delle altre in un testo lungo e piccolo si nota. Qua invece si tratta di pensare un uso display molto grande, quindi se la ruota è molto scura e il pifferaio è molto chiaro nessuno si lamenta.
Più difficile è trovare un uso di qualche tipo per queste figure.
I font di questo tipo si chiamano “dingbat”.
Si tratta di caratteri ornamentali usati in tipografia, sia nel passato, sia nell’era digitale.
Su Wikipedia c’è una pagina in proposito, ma non si chiarisce l’etimologia del termine. Su siti specifici che ricostruiscono l’etimologia delle parole c’è qualcosa di più preciso, ma sempre di origine vaga. È un termine nato chissà come per indicare genericamente di volta in volta determinati oggetti, o categorie di persone. Passato poi a indicare caratteri non meglio definibili.
Per tornare a John Moore, la sua fonderia nasce nel 1974.
Tra i caratteri disponibili su Myfont, in testa c’è il Moho Condensed, caratterizzato da angoli retti e tratti senza curve.
Più giù c’è il Waterman, dove invece le linee rette non ci sono proprio.
E lo Scripta Pro, una elegante calligrafia tracciata con la biro o meglio ancora con una penna molto scorrevole.
Tra gli altri, noto il Makiritare, ispirato a disegni etnici venezuelani che ricordano i labirinti, e il Duvall, ispirato al lettering di Edward Duvall, autore di un libro “Modern Sign Painting” alla fine degli anni 40.Come ci sono arrivato a John Moore? E chi lo sa. Mi sono segnato il nome da una parte, e l’ho ritrovato ora. Lui è venezuelano. Autore anche di parecchi dingbats.
A me ricordano i graffiti della Valcamonica. Però non credo che qualcuno in Italia ha avuto l’idea di passarli in un font. Non deve essere una cosa particolarmente complicata, tenuto conto che nei normali alfabeti una lettera leggermente più scura delle altre in un testo lungo e piccolo si nota. Qua invece si tratta di pensare un uso display molto grande, quindi se la ruota è molto scura e il pifferaio è molto chiaro nessuno si lamenta.
Più difficile è trovare un uso di qualche tipo per queste figure.
I font di questo tipo si chiamano “dingbat”.
Si tratta di caratteri ornamentali usati in tipografia, sia nel passato, sia nell’era digitale.
Su Wikipedia c’è una pagina in proposito, ma non si chiarisce l’etimologia del termine. Su siti specifici che ricostruiscono l’etimologia delle parole c’è qualcosa di più preciso, ma sempre di origine vaga. È un termine nato chissà come per indicare genericamente di volta in volta determinati oggetti, o categorie di persone. Passato poi a indicare caratteri non meglio definibili.
Per tornare a John Moore, la sua fonderia nasce nel 1974.
Tra i caratteri disponibili su Myfont, in testa c’è il Moho Condensed, caratterizzato da angoli retti e tratti senza curve.
Più giù c’è il Waterman, dove invece le linee rette non ci sono proprio.
E lo Scripta Pro, una elegante calligrafia tracciata con la biro o meglio ancora con una penna molto scorrevole.
Tra gli altri, noto il Makiritare, ispirato a disegni etnici venezuelani che ricordano i labirinti, e il Duvall, ispirato al lettering di Edward Duvall, autore di un libro “Modern Sign Painting” alla fine degli anni 40.Come ci sono arrivato a John Moore? E chi lo sa. Mi sono segnato il nome da una parte, e l’ho ritrovato ora. Lui è venezuelano. Autore anche di parecchi dingbats.
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