Il Typeface è una invenzione recente
In inglese ci si tiene molto (tra gli addetti ai lavori) a fare la distinzione tra font e typeface. Il font è un singolo file, mentre il typeface è un’insieme di font diversi che fanno parte della stessa famiglia.Il Times New Roman, ad esempio, o il Calibri, sono typefaces, perché comprendono una versione romana, corsiva, grassetta, eccetera.
Nell’uso comune, specie dei non addetti ai lavori, font e typeface si sovrappongono. A maggior ragione nella lingua italiana, dove non esiste una parola corrispondente a typeface: la pagina relativa su Wikipedia in inglese non è linkata a nessuna pagina corrispondente in italiano.
Gli addetti ai lavori parlano di “tipo di carattere”, che però viene spesso abbreviato in “carattere”, che non solo fa confusione tra font e typeface, ma anche con la singola lettera, che è anch’essa un carattere. Cioè: un tweet di 140 caratteri non è mica composto di 140 font diversi! Repubblica però, annunciando il cambio della grafica, annunciava il nuovo “carattere”, chiamato Eugenio. Che non è un solo font, ma un typeface (composto vari font), anzi, forse sono vari typefaces diversi, tenuto conto che la versione con grazie è completamente diversa da quella senza grazie.
Sui siti di font si parla di “famiglie”, sui vecchi opuscoli italiani si parlava di “serie”.
Comunque, l’idea moderna è che quando si progetta un nuovo tipo di carattere bisogna lavorare a vare versioni diverse dello stesso tipo: una versione romana, una corsiva, una grassetta e una grassetta corsiva, come minimo. Ma molti tipi hanno vari pesi diversi: si va dalla versione sottilissima (thin) a quella molto spessa (black, extra-black). Si può variare anche la larghezza: si va dai caratteri più stretti (ultra-condensed) a quelli più larghi (extended). Si possono preparare versioni diverse dello stesso carattere: rounded (con gli angoli arrotondati), inline (con una linea longitudinale), outline (solo il bordo), eroded (con vari tipi di disturbi che rovinano la forma della lettera), eccetera.
Come detto le famiglie più grandi arrivano a comprendere una versione senza grazie accanto a una con grazie, una monospaced, una slab, tutte sotto lo stesso nome. Si dà per scontato che per certi aspetti l’impostazione data al disegno è unitaria.
La dimensione è secondaria. È vero che si può progettare una versione coi tratti più sottili per i testi più grandi e una coi tratti più spessi per i testi piccoli (è il caso dell’Eugenio di Repubblica), ma in generale un carattere digitale può essere scalato facilmente a qualsiasi grandezza.
Ma all’epoca dei caratteri metallici non era così. Per secoli il concetto di Typeface non è esistito, ed era invece la dimensione ad essere in primo piano quando si decideva di creare (o comprare) un nuovo font. Che non aveva nome ma veniva identificato solo sulla base della dimensione, e magari del numero che rispecchiava l’ordine in cui era stato realizzato.
Ad esempio sul famoso specimen di Caslon, si può vedere su Wikipedia, troviamo il “great primer roman”, l’“english roman”, il “pica roman”, il “long primer roman” numero 1 e numero 2. Ma le parole “great primer”, “english”, “pica”, “long primer” rappresentano la dimensione del carattere (great primer=18pt, english=14pt, pica=12pt, long primer=10pt). E ogni font faceva storia a sé: nel “double pica” la coda della Q arriva sotto la u successiva, mentre nell’ “english” arrivava sotto la o nella parola “Quoque”.
Il meccanismo lo spiega bene il sito Circoutous Root, facendo l’esempio del Rustic (un carattere decorativo dove le lettere sono realizzate con la forma di tronchi d’albero).
Serviva un font ornamentale in quello stile della grandezza “two lines great primer”, cioè 36 punti? Lo si disegnava. E gli si dava il nome “two-line great primer ornamented no.1”. Se, in un secondo momento, bisognava prepararne una versione nello stesso stile per un “two line long primer” (20 punti), la si ridisegnava da capo, a partire da zero, nello stesso stile e con tutte le soluzioni che sul momento sembravano necessarie. E lo si chiamava “two-line long primer ornamented no.21”. Perché 21? Perché evidentemente c’erano già 20 stili ornamentali di quella dimensione già pronti. Una versione in formato “two-line pica”, successiva, avrebbe potuto prendere il numero 17 (più basso di 20), perché in quella categoria erano stati realizzati solo 16 font fino a quel momento. E così via.
Sul catalogo quindi, le varie versioni di quello che oggi consideriamo Rustic, si trovavano a pagine diverse in mezzo a font completamente diversi. Uno era il primo degli ornamentali di two line great primer, un altro il ventunesimo nella pagina degli ornamentali two lines long primer.
Sul sito ci sono le scannerizzazioni di tre pagine diverse di un catalogo del 1846 in cui compaiono tre diverse versioni del Rustic.
C’è poi la pagina di un catalogo della stessa fonderia pubblicato nel 1870, in cui finalmente si raggruppano vicine le varie versioni. In dimensioni diverse, e con i vecchi nomi. Così, accanto alla “two-line nonpareil orna. no.25” (nonpareil=6 pt), troviamo la “two-line nonpareil orna. no. 26”, che è una versione diversa, stesso stile ma diverso disegno, stessa dimensione. E ci troviamo anche una “two-line bourgeois orna. no.11” (9 punti), che è ancora nello stesso stile ma in dimensione diversa.
Insomma, il Rustic non era un typeface in senso moderno. Era più uno stile, come oggi diciamo “gotico” o “script”. Anzi, era meno di uno stile, tenuto conto che nel catalogo del 1870 non c’era una sezione apposita per il Rustic, che rientrava nella categoria Ornamental Letters. Le altre categorie erano old style, fancy types, scrips, newspaper headlines, clarendon, dorics, ionics, antiques, egyptian, pointed letters...
Circuitous Root usa la metafora dei culti e dei club. Un culto è un gruppo di persone in cui tutti gli adepti credono ciecamente negli stessi dogmi. Un club è un gruppo di persone che hanno un interesse comune ma opinioni diverse in proposito. Secondo questa definizione un moderno typeface è un culto, mentre i font disegnati da Caslon in diversi formati erano più che altro un club.
Nell’uso comune, specie dei non addetti ai lavori, font e typeface si sovrappongono. A maggior ragione nella lingua italiana, dove non esiste una parola corrispondente a typeface: la pagina relativa su Wikipedia in inglese non è linkata a nessuna pagina corrispondente in italiano.
Gli addetti ai lavori parlano di “tipo di carattere”, che però viene spesso abbreviato in “carattere”, che non solo fa confusione tra font e typeface, ma anche con la singola lettera, che è anch’essa un carattere. Cioè: un tweet di 140 caratteri non è mica composto di 140 font diversi! Repubblica però, annunciando il cambio della grafica, annunciava il nuovo “carattere”, chiamato Eugenio. Che non è un solo font, ma un typeface (composto vari font), anzi, forse sono vari typefaces diversi, tenuto conto che la versione con grazie è completamente diversa da quella senza grazie.
Sui siti di font si parla di “famiglie”, sui vecchi opuscoli italiani si parlava di “serie”.
Comunque, l’idea moderna è che quando si progetta un nuovo tipo di carattere bisogna lavorare a vare versioni diverse dello stesso tipo: una versione romana, una corsiva, una grassetta e una grassetta corsiva, come minimo. Ma molti tipi hanno vari pesi diversi: si va dalla versione sottilissima (thin) a quella molto spessa (black, extra-black). Si può variare anche la larghezza: si va dai caratteri più stretti (ultra-condensed) a quelli più larghi (extended). Si possono preparare versioni diverse dello stesso carattere: rounded (con gli angoli arrotondati), inline (con una linea longitudinale), outline (solo il bordo), eroded (con vari tipi di disturbi che rovinano la forma della lettera), eccetera.
Come detto le famiglie più grandi arrivano a comprendere una versione senza grazie accanto a una con grazie, una monospaced, una slab, tutte sotto lo stesso nome. Si dà per scontato che per certi aspetti l’impostazione data al disegno è unitaria.
La dimensione è secondaria. È vero che si può progettare una versione coi tratti più sottili per i testi più grandi e una coi tratti più spessi per i testi piccoli (è il caso dell’Eugenio di Repubblica), ma in generale un carattere digitale può essere scalato facilmente a qualsiasi grandezza.
Ma all’epoca dei caratteri metallici non era così. Per secoli il concetto di Typeface non è esistito, ed era invece la dimensione ad essere in primo piano quando si decideva di creare (o comprare) un nuovo font. Che non aveva nome ma veniva identificato solo sulla base della dimensione, e magari del numero che rispecchiava l’ordine in cui era stato realizzato.
Ad esempio sul famoso specimen di Caslon, si può vedere su Wikipedia, troviamo il “great primer roman”, l’“english roman”, il “pica roman”, il “long primer roman” numero 1 e numero 2. Ma le parole “great primer”, “english”, “pica”, “long primer” rappresentano la dimensione del carattere (great primer=18pt, english=14pt, pica=12pt, long primer=10pt). E ogni font faceva storia a sé: nel “double pica” la coda della Q arriva sotto la u successiva, mentre nell’ “english” arrivava sotto la o nella parola “Quoque”.
Il meccanismo lo spiega bene il sito Circoutous Root, facendo l’esempio del Rustic (un carattere decorativo dove le lettere sono realizzate con la forma di tronchi d’albero).
Serviva un font ornamentale in quello stile della grandezza “two lines great primer”, cioè 36 punti? Lo si disegnava. E gli si dava il nome “two-line great primer ornamented no.1”. Se, in un secondo momento, bisognava prepararne una versione nello stesso stile per un “two line long primer” (20 punti), la si ridisegnava da capo, a partire da zero, nello stesso stile e con tutte le soluzioni che sul momento sembravano necessarie. E lo si chiamava “two-line long primer ornamented no.21”. Perché 21? Perché evidentemente c’erano già 20 stili ornamentali di quella dimensione già pronti. Una versione in formato “two-line pica”, successiva, avrebbe potuto prendere il numero 17 (più basso di 20), perché in quella categoria erano stati realizzati solo 16 font fino a quel momento. E così via.
Sul catalogo quindi, le varie versioni di quello che oggi consideriamo Rustic, si trovavano a pagine diverse in mezzo a font completamente diversi. Uno era il primo degli ornamentali di two line great primer, un altro il ventunesimo nella pagina degli ornamentali two lines long primer.
Sul sito ci sono le scannerizzazioni di tre pagine diverse di un catalogo del 1846 in cui compaiono tre diverse versioni del Rustic.
C’è poi la pagina di un catalogo della stessa fonderia pubblicato nel 1870, in cui finalmente si raggruppano vicine le varie versioni. In dimensioni diverse, e con i vecchi nomi. Così, accanto alla “two-line nonpareil orna. no.25” (nonpareil=6 pt), troviamo la “two-line nonpareil orna. no. 26”, che è una versione diversa, stesso stile ma diverso disegno, stessa dimensione. E ci troviamo anche una “two-line bourgeois orna. no.11” (9 punti), che è ancora nello stesso stile ma in dimensione diversa.
Insomma, il Rustic non era un typeface in senso moderno. Era più uno stile, come oggi diciamo “gotico” o “script”. Anzi, era meno di uno stile, tenuto conto che nel catalogo del 1870 non c’era una sezione apposita per il Rustic, che rientrava nella categoria Ornamental Letters. Le altre categorie erano old style, fancy types, scrips, newspaper headlines, clarendon, dorics, ionics, antiques, egyptian, pointed letters...
Circuitous Root usa la metafora dei culti e dei club. Un culto è un gruppo di persone in cui tutti gli adepti credono ciecamente negli stessi dogmi. Un club è un gruppo di persone che hanno un interesse comune ma opinioni diverse in proposito. Secondo questa definizione un moderno typeface è un culto, mentre i font disegnati da Caslon in diversi formati erano più che altro un club.
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