Fotocomposizione
La fotocomposizione è una tecnica pochissimo conosciuta. Le tecniche tradizionali di tipografia andarono avanti per quattrocento anni. I primi automatismi (linotype) vennero introdotti nell’800, e durarono fino agli anni settanta e oltre. I computer sono in uso al momento attuale. La fotocomposizione è stata solo una breve parentesi, in molte attività.
Wikipedia in italiano ha un’apposita pagina, ma risulta ancora non formattata secondo gli standard del sito. Però è interessante, essendo piena di ricordi di chi con le macchine fotocompositrici ci ha lavorato.
Ovviamente si fa riferimento alla pellicola fotografica su cui l’immagine dei caratteri veniva impressa utilizzando la luce, ma non si parla chiaramente dall’inizio di come veniva creata la forma luminosa del carattere in questione.
Solo in coda c’è un paragrafo dedicato alle matrici di caratteri. “Le matrici di caratteri delle fotocompositrici erano fisiche e venivano realizzate su pellicola o su pesanti dischi di cristallo trasparente”.
Già, ma come immaginarsi tutto il meccanismo? Nelle linotype le matrici erano dei blocchetti di metallo (ottone?) che scendevano da un serbatoio e si mettevano in fila a formare le parole. Ma nelle macchine fotocompositrici? Cos’era che si spostava?
Un’immagine interessante sta in un articolo pubblicato sul sito inglese 99designs, che ripercorre tutta la storia recente della tipografia desktop, diciamo. Niente caratteri mobili, niente linotype, si parte dagli anni 60, con la Ibm Selectric. Se fino ad allora una macchina da scrivere era fatta di leve collegate con i tasti, per cui era la pressione del dito sul tasto a far sì che il martelletto imprimesse la lettera sul foglio, con la Selectric c’era un meccanismo elettronico che ruotava una sfera delle dimensioni di una palla da golf, sulla cui superficie c’erano in rilievo le lettere dell’alfabeto. La pressione sul foglio era costante, visto che non dipendeva dalla pressione del dito sul tasto.
Il passo successivo fu la cosiddetta margherita, la daisy wheel, dove le lettere erano disposte in cerchio, come i petali di un fiore, appunto. Non solo la velocità di battitura poteva essere maggiore, ma era possibile anche usare caratteri a larghezza variabile: fino ad allora la m e la l dovevano per forza avere la stessa larghezza, per via dei limiti tecnici degli strumenti usati fino ad allora. Se con le vecchie macchine da scrivere era impossibile smontare l’intero meccanismo con le lettere, per sostituirlo con la versione corsiva o neretta, le macchine dotate di daisy wheel o di sfera permettevano di cambiare font facilmente.
A questo punto si arriva al phototypesetting, e uno spaccato disegnato ne spiega il funzionamento. La forma della lettera è in trasparenza su un disco, che può essere ruotato di fronte a una lampadina. Una lente può ingrandire la forma alla dimensione voluta, un prisma scorrevole dirige il raggio su carta o pellicola fotografica.
C’è pure una foto di quella che dovrebbe essere una delle prime fotocompositrici. Si riconosce solo una normale macchina da scrivere che stampa su foglio, più varie pulsantiere o display che non si sa a cosa servono.
L’articolo prosegue parlando di Digiset, Univers, Ocr-A, fino ad arrivare a Postscript, Ttf e Otf, la Apple eccetera.
Qua e là si trova qualche fotografia del disco di vetro coi caratteri, cercando Berthold Diatype, ma si trova anche la Diatronic Plate, dove le lettere sono invece disposte in una griglia all’interno di un rettangolo.
Si trova qualcosa anche cercando Lumitype Disk.
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