Textura su Google e altrove

I caratteri textura sono noti e diffusissimi. Eppure non stanno su Google Fonts.Per i non addetti ai lavori, stiamo parlando dei caratteri che vengono definiti “gotici”, e che vengono usati nelle intestazioni dei quotidiani (Il Messaggero, New York Times), nelle copertine di dischi metal-punk-hiphop, nei tatuaggi, nei manifesti delle rievocazioni medievali, nei menu di certi ristoranti caratteristici, eccetera.
Chi usa Office della Microsoft si sarà facilmente imbattuto nell’Old English. Se si va su Dafont, cliccando su gotici, ci sono parecchie alternative gratuite (talvolta solo per uso personale). In testa ci sono l’Old London, l’Olde English e il Cloister Black, tutti di Dieter Steffmann (100% free). Segue l’Ancient, più giù c’è l’Enchanted Land, molto semplice e arrotondato.
Eppure, nessuno dei 296 font display di Google si ispira a questo stile.
Il primo blackletter che si trova è l’Unifraktur Maguntia, che ai non addetti ai lavori può sembrare la stessa cosa, ma in realtà è molto diverso. Nulla a che vedere con gli inglesi: qui si respira aria tedesca da tutte le parti. E niente a vedere col medioevo: il fraktur viene sviluppato a partire dal sedicesimo secolo.
Il sito ne ospita anche un’altra versione, l’Unifraktur Cook, molto più nera.
Un altro blackletter può essere il Pirata One, che sicuramente si ispira a quello stile, anche se non ha le decorazioni rifinite dell’Old English o dei caratteri di Gutenberg.
Più in basso si trova il New Rocker, di Impallari Type, che pure attinge allo stesso immaginario, con le lettere piene di spigoli, qualche punta che scende sotto la linea di base, estremità biforcute. Niente di accuratamente preciso, la leggibilità è fondamentale, questi sono tutti font pensati per l’uso sui siti web.
Un altro font che si ispira ai blackletter è il Germania One. In effetti molto alla lontana. A prima vista potrebbe sembrare un normale carattere neretto, anche se vari dettagli sono di sicura ispirazione antica. La forma della M maiuscola dice “Germania” a gran voce. Questo si capisce anche senza leggere il nome del font.
Peccato che da Google non è possibile risalire a quali siti usano questi font, per rendersi conto di come li usano.
Il Germania One sarebbe usato da 17 mila siti web, l’Unifraktur da più di 53 mila. Un quarto di loro sarebbero negli Stati Uniti.
Tra i blackletter a pagamento più famosi c’è l’American Text, disegnato nel 32 da Morris Fuller Benton. Come nell’Old english, le maiuscole sono decorate da tratti sottili e punte triangolari, meno curve rispetto all’Old English (Che è diffuso dalla Itc, senza nome del disegnatore originario).
Tra i più popolari al momento su Myfonts ci sono il Trigot (Volcano Type), moderno, stilizzato, fatto solo di linee rette e senza rifiniture, il Berliner Fraktur (Resistenza), dove all’interno del tratto si riconoscono i segni della pennellata, e il Backyard (Mans Greback), che ha una singolare versione inline.
Cercando il tag “textura” vengono fuori il Gandur New (Blackletra), più che black, nel senso che ha i tratti larghissimi e lo spazio tra le lettere sottilissimo, il Brauhaus (MADType), con la M alla tedesca (e non solo quella), e il Black Swan (Bomparte’s Fonts), con sottili spirali alle estremità di varie lettere, non solo maiuscole (varianti disponibili), che disegnarle a mano sarebbe complicato, ma su un libro fantasy fanno la loro figura.
Tra i disegnatori famosi, anche Goudy si è cimentato con un textura, e prima di Fueller Benton. Nel 1928 ha disegnato il Goudy Text, attualmente commercializzato dalla Monotype.
Il risultato è diversissimo, come si può notare su Identifont. Che non ha idea di come catalogare le differenze tra i due, ma aleno riesce a mettere i due set di caratteri uno accanto all’altro.
Il blackletter di Fuller Benton è molto più stilizzato, fatto di linee rette, e con lettere maiuscole molto condensate. Quello di Goudy è più svolazzante, con maiuscole più larghe.
Interessanti anche i numeri: quelli di Goudy hanno tratti ascendenti e discendenti, talvolta più marcati (7 e 9) talvolta meno.

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