Compugraphic

Compugraphic è stata un’azienda americana attiva sul fronte della fotocomposizione fin dagli anni Sessanta. Lanciò sul mercato le sue prime compositrici verso la fine del decennio. I primi modelli non avevano nessun monitor, al limite un display da una riga sola. Poi venne ideato un monitor da parecchie righe, insieme a supporti che permettevano di memorizzare il testo digitato. Successivamente vennero prodotti sistemi modulari con la possibilità di aggiungere un secondo monitor per l’anteprima della pagina da stampare. Infine si produssero sistemi molto più facili da usare, che prevedevano anche l’uso della penna elettronica, e si fece in modo di rendere compatibili le apparecchiature con i personal computer, a partire dall’Apple II.
Le ultime notizie risalgono alla fine degli anni Ottanta, quando l’azienda venne comprata dall’europea Agfa.
Identifont conosce un solo carattere attribuito alla Compugraphic: Cg Symphony, ora pubblicato dalla Monotype. Fonts in Use invece ne segnala parecchi. Il più segnalato è il Sackers Gothic, disegnato a metà degli anni settanta da Gary Sackers, e digitalizzato dalla Monotype già dall’inizio degli anni 90.
Le macchine della Compugraphic avevano un certo fascino, dal punto di vista del design: sul sito del Museum of Forgotten Art Supplies c’è uno scatto della Compugraphic 7500: tastiera, monitor e grosso case montate su una specie di scrivania, con un colore blu intenso su monitor e case, che si alternava al nero del resto. Anche il monitor sembra a fosfori bluastri su fondo nero. Dice la didascalia che il testo con le istruzioni relative all’impaginazione veniva salvato su una cassetta, che poi doveva essere inserita nella stampante/sviluppatrice. Da cui usciva la colonna che poi doveva essere ritagliata e incollata a mano per comporre la pagina.
La macchina era in funzione negli anni 70, ed era già un modello avanzato.
Una foto di un modello in uso all’inizio del decennio si può vedere su un sito britannico: Metal Type. La macchina era una Universal 2. 
A destra si vedono dei contatori a rotella e degli interruttori acceso/spento, per controllare, misura della linea, spazio tra le lettere e chissà che altro (la dimensione)?
Al centro c’è il leggio su cui fissare il foglio col testo da trascrivere.
A sinistra qualcosa che sembrano due display.
Spiega la didascalia che il display per il testo da stampare poteva visualizzare (e memorizzare) solo una riga per volta. Era possibile rileggere e correggere il testo, ma quando si premeva invio (execute) il testo veniva impresso sul supporto, e la memoria del display veniva svuotata, per poter lavorare sulla riga successiva.
Mi pare che non fosse possibile memorizzare il testo inserito da nessuna parte.
I font erano contenuti su strisce di pellicola avvolte su dei tamburi. Era possibile caricare quattro font alla volta. Visto che non c’era l’anteprima, poteva capitare che un operatore selezionasse uno dei quattro pensando di ottenere un certo risultato, e invece veniva fuori qualcosa di completamente diverso, in caso fosse stato erroneamente caricato il carattere sbagliato.
MetalType usa spesso il termine “bromide”, bromuro. A quanto pare, quando si premeva invio, il testo veniva impresso su questo bromuro, che si trovava in una cassetta. Quando la cassetta era piena, veniva rimossa a mano e messa nella sviluppatrice. Da cui poi veniva fuori il foglio con le lettere visibili che doveva essere tagliato e composto a mano.
Per chi cerca materiale sulla fotocomposizione è abbastanza difficile trovarlo al volo. Si trattava di un’attività condivisa da pochi, quindi anche se è abbastanza recente è poco documentata, a differenza della stampa a pressione che è entrata nel mito, e per la quale è stata realizzata una gran mole di materiale anche video: torchi, linotype, composizione a mano, eccetera.
Una vera rarità quindi è un articolo su Creative Pro, che raccoglie in una sola pagina numerose immagini vintage degli albori della fotocomposizione. Dai primi assurdi macchinari che occupavano molto più di una scrivania, ai rotoli di carta perforata, con tanto di didascalia che indica lettera per lettera a seconda del numero di buchi, alle schermate di alcune fotocompositrici, con le istruzioni che comparivano in alto sul monitor (“size 06 font 1 ...”) e il carattere spazio visualizzato come un circonflesso sulla linea di base.
Per tornare alla Compugraphic, un graphic designer ricorda un aneddoto a proposito della Editwriter 7770: loro la chiamavano “il dinosauro blu”. Pesava “più di una tonnellata”, dice lui, e quando si trattò di dismetterla dovettero faticare non poco per farla entrare nell’ascensore.

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