Il Manuale Tipografico di Bodoni

Una copia del Manuale Tipografico di Bodoni, pubblicato a Parma nel 1818 è stata fotografata e pubblicata online sul sito RareBookRoom. 617 fotografie, in ognuna delle quali si vedono due pagine. Negli specimen, la pagina di sinistra è lasciata vuota, e non è contata nella numerazione. Il libro è impaginato in due volumi a numerazione indipendente. Il sito è di concezione superata, non è piacevole sfogliare le pagine. Ma si può leggere ciò che c’è scritto dentro (non mi pare che il testo sia stato trascritto altrove sul web) e si può ammirare il lavoro di disegno delle lettere e lo stile di impaginazione.

Dopo lo stemma e il ritratto di Bodoni, una breve dedica stampata dalla “vedova Bodoni” alla principessa imperiale Maria Luigia, arciduchessa d’Austria, duchessa di Parma, Piacenza, Guastalla precede una lettera con intestazione “Maestà”, scritta in un font simile all’attuale French Script (calligrafico ad assi verticali, d con asta curva, strana forma della N maiuscola o minuscola, svolazzi sulle e di fine parola).
Grande quantità di spazio bianco ai bordi, poi doppia cornice nera, ogni riga è da appena cinque parole.
La lettera comincia con l’elogio della Stampa, arte nata in Germania, che fa conoscere le virtù dei monarchi, le grandi gesta degli avi e i pensieri dei sublimi ingegni, anche quando statue, quadri e templi “perirono tra le ruine o preda furono delle fiamme”. Il libro “formerà forse epoca negli annali”, dice la lettera, la gloria di Bodoni è anche quella “di una città che gli fu seconda patria”.

Segue una presentazione della vedova Bodoni al lettore. Scritta in italico, con le parole da mettere in evidenza in tondo, mentre le prime tre parole sono in maiuscoletto. Qui ci entrano circa sei parole per riga. La vedova racconta con quanto impegno suo marito aveva lavorato alla perfezione dei caratteri da inserire nel manuale, i suoi “alfabeti”. Il lavoro era stato interrotto dalla malattia e dalla morte, e lei si era sobbarcata l’arduo compito di portarlo a termine.
Mentre nel primo manuale, pubblicato pochi anni prima, c’erano solo cento tipi di carattere, ognuno dei quali presentato con la descrizione di qualche città, nel secondo manuale in tutti i testi venne replicato l’incipit della prima Catilinaria di Cicerone, per far capire al volo “quello che più o meno lettere comprende in una riga”.
Bodoni aveva conservato il nome delle città per indicare i vari tipi diversi, ma aveva pure stabilito che “in ciascuna classe gli alfabeti fossero numerati, acciocché con egual sicurezza potesse farsi richiesta di caratteri indicandone solamente il corpo e il numero; per esempio Testino 1, 2, 3 ecc Testo 1, 2, 3 ecc.
Ci sono moltissime gradazioni di maiuscole, da usarsi per i frontespizi, e qualcuna di cancelleresca.
Nella seconda parte del volume si passa ai caratteri greci, a quelli tedeschi e russi (esotici).
Per tedeschi si intende quelli che noi chiameremmo gotici (nel senso di textura), ben pochi perché Bodoni prevedeva “Che sarebbero essi andati in disuso, e che nelle stampe germaniche, ad imitazion delle inglesi, si sarebbero ben presto adottate le nostre lettere.”
Si conclude con segni speciali: fregi, segni algebraici, chimici, astronomici, linee semplici doppie e triplici eccetera.
Ci sono anche lettere ornate e caratteri musicali, che presentavano particolari difficoltà di incisione.
Le note erano state preparate in due versioni: una che prevedeva stampa in due fasi, prima le righe e poi le note, con l’esigenza di sovrapporre con esattezza le due stampe successive; l’altra in cui in un colpo solo si imprimevano sia le righe che le note.
Il testo riempie 27 pagine (in numeri romani).

La numerazione ricomincia da capo, sempre in numeri romani, con la presentazione scritta da Bodoni. Questa è in carattere tondo (regular).
Bodoni quando scrive è più prolisso, segue più regole retoriche. Parte da lontano, arriva poi a riflettere sul concetto astratto di bello: se un libro è stampato male, anche il contenuto ne risente, viene apprezzato di meno.
Parlando di bellezza nei libri, ne distingue tre tipi: quella per i Presbiti, quella per i Miopi e quelle mezzane. I presbiti sono quelli che non leggono da vicino. Quindi si sta parlando di libri fatti per essere ammirati da lontano, per la pagina nel suo complesso. I miopi sono quelli che non leggono da lontano, e quindi tendono ad avvicinare la pagina all’occhio, a guardare i dettagli. Si parla anche di edizioni più grandi, fatte per essere ammirate, e più piccole, “per chi abbia spesso a cangiar soggiorno”.
Si parla di differenze di uso, di durata, di qualità, si parla di come viene giudicato chi fa sfoggio di libri di un certo tipo, ci sono riferimenti all’immaginario classico (Alessandro Magno, i filosofi greci e l’epica).
Si parla dell’usanza di mettere molto spazio bianco sui libri stampati per le annotazioni del lettore. Visto che queste ultime il più delle volte tolgono valore al libro invece che aggiungerlo, conviene che chi voglia proprio inserire annotazioni in grande quantità “facciavi tra foglio e foglio frappor carta banca dal legatore”.
Dopo 22 pagine si arriva a cercare di dare una definizione di cos’è che rende belle le lettere. Ci sono quattro fattori: il primo è la regolarità (i tratti sono simili nelle diverse lettere; tutte sono componibili con un piccolo numero di parti identiche variamente combinate e disposte). Il secondo è la nettezza e forbitura (che deriva dalla perfezione dei punzoni e dalla qualità della gittata, da cui devono venire fuori lettere dalle facce lisce e dagli spigoli taglienti); il terzo è il buon gusto (scegliere le forme che vadano a genio della nazione e del secolo, perché anche nella scrittura, “la moda regna e dà leggi, talor con ragione, e talor senza”); il quarto è la bellezza de’ caratteri, la grazia (quando le lettere sembrano scritte “non già con isvogliatezza o con fretta, ma piuttosto che con impegno e pena, con felicità ed amore”).
Regolarità, nettezza, buon gusto e grazia da sole non bastano: deve essere schierato “in rette uguagliatissime linee, non folte, né in proporzione dell’altezza loro troppo rare”, lasciando in ciascuna linea, come fra parola e parola, distanze uguali.
Le note a piè di pagina devono essere distribuite ugualmente tra le due facciate per ottenere un effetto di simmetria. Le lettere non devono essere rotte, piene d’inchiostro, “sozze di sbavature”. Non bisogna mai porre fianco a fianco due facciate che non paiano d’una medesima stampa.
Si parla anche di qualità della carta, da ricercare fino a quando “il costo non ne sgomenti”.
Qualcuno aveva parlato anche di usare carta grigia e inchiostro grigio, “mal soffrendo di affissarsi su colori gagliardi”. Bodoni risponde che “solendo ai luoghi ove per lo più si legge mancar modo di scemar il lume sul libro”, è meglio dare forza ai colori “per non rimaner troppo spenti nelle più fosche giornate”.
Alla fine si passa alla classificazione dei caratteri presentati nel volume. Prima lettere e segni di interpunzione, poi numeri e caratteri agebraici, astronomici e musicali, infine fregi e fioroni.
I vari tipi di carattere di una stessa lingua si distinguono per forma, grandezza e proporzione. E qui parte l’excursus storico, dalle invenzioni tedesche alle innovazioni italiane (forma “semigotica” la loro, “romana” quella elaborata in Italia, con già la definizione di Aldino o Italico o Corsivo. Infine il cancelleresco).
La spalla di un carattere per Bodoni era la distanza tra le linee orizzontali che toccano la punta superiore di h e di e quella inferiore di p e q. La distanza tra le parallele che toccano la parte superiore e quella inferiore di a, c, e è detta occhio.
La proporzione dovrebbe essere 2-3-2: l’occhio deve occupare i tre settimi della spalla (42%), lasciando due settimi per i tratti ascendenti e due per quelli discendenti (28% ciascuno). Ma Bodoni non esclude affatto proporzioni diverse, anzi, spiega quali sono esigenze che influiscono su questa scelta.
Si può aumentare la larghezza delle lettere, anche, fino a far diventare la o circolare, ma questo riduce le parole che si possono inserire su una riga, e aumenta la mole e il costo del libro.
Restringere le lettere invece può essere necessario quando si vuole far entrare dei versi interi su una sola riga senza rimpicciolire troppo il carattere.
Si parla poi degli alfabeti stranieri, necessari fin dagli albori della stampa, quando Fust e Sceffero stamparono un’opera di Cicerone con alcune parole in greco, scritte in lettere greche “benché rozzamente formate e scorrettissimamente composte”.
Claude Garamond, qui chiamato “Claudio Garamondo”, è stato il primo secondo Bodoni a dare “garbo e venustà” alle lettere greche stampate.
“L’Ebreo” è il secondo tipo di carattere straniero necessario ad una stamperia. I primi tentativi sono coevi a quelli riguardanti il greco (1476). La difficoltà è quella di avere a disposizione anche i “piccoli diversi segni che vanno aggiunti sopra, sotto e in mezzo alle lettere, quando appor si vogliono tutte le note destinate a togliere ogni dubbietà di lettura nonché di pronuncia di ciascuna voce”.
Due le principali varietà di scritture in una letteratura diramatasi per tanti paesi e tanti secoli: la quadrata testuale e la rabbinica.
Si parla anche di un Ebreo-tedesco, con cui si imprimono le cose scritte dagli ebrei “in quella Ebraizzante Tedesca favella che si può dire dialetto loro”.
Ci sono poi i caratteri Siri: Estranghelo, Nestoriano o Caldaico, Maronitico.
Poi c’è l’Arabo “che alquanto men bene può scriversi con lettere Ebree”, ma che vede numerosissime varianti e una lunga tradizione.
E poi un breve elenco degli altri: armeni, etruschi, fenici, punico, illirico, gotico d’ulfila, tibetano eccetera.
Con le ultime considerazioni, la prefazione occupa 72 pagine.

A questo punto inizia il manuale vero e proprio, gli specimen dei vari caratteri.
Si comincia con varie tre “parmigianine”: Parma (n.1), Roma (2), Parigi (3). Scritte piccole, in latino, sempre la solita catilinaria, la prima parte scritta in tondo, le ultime righe in corsivo, poi in due serie di maiuscole, più grandi e più piccole.
Poi tre Nompariglia numerate (sempre ognuna col nome di città), cinque Mignone, sette Testino, nove Garamoncino, dieci Garamone, dieci Filosofia, dieci Lettura, 13 Silvio, 10 Soprasilvio, 14 Testo, 7 Parangone, 11 Ascendonica, 6 Palestina, 8 Canoncino, 3 Sopracanoncino, 3 Canone, 3 Corale, 3 Ducale, 2 Reale, Imperiale tondo e corsivo, infine Papale tondo e corsivo.
Il nome si riferisce alla dimensione, in ordine crescente. Dal punto di vista moderno, le serie sono molto monotone: seguono pressoché tutte le stesse norme. Solo che alcune sono più pesanti, altre più leggere, alcune più larghe anche più strette. Arrivati alla Reale, ogni pagina può contenere soltanto quattro parole.
E qui siamo arrivati a pagina 145, quando iniziano i Cancellereschi. (Sto seguendo la convenzione che usava Bodoni: quelle parole da mettere in evidenza, che noi metteremmo in corsivo, lui le metteva con l’iniziale maiuscola).
Il cancelleresco è una specie di italico, con un maggiore rilievo dato alle caratteristiche calligrafiche. Un calligrafico a lettere separate, o un italico scritto a mano.
Qui, con l’aumentare dei numeri, aumenta la dimensione.
Un’etichetta in basso fa riferimento alle dimensioni viste finora (canoncino, ecc.).
Ogni versione ha due stili, quello normale e una Finanziera, dove sono presenti maggiori tratti calligrafici, svolazzi, una d ad asta curva, occhielli sulla f ed esse lunga.
I cancellereschi sono 16.
Poi inizia l’Inglese, un corsivo a lettere unite, talvolta con occhielli, talvolta senza, talvolta ad asse verticale, talvolta obliquo. Sette versioni. Da notare che ci interessa qualcosa che rassomigli al French Script, che rientra in questa categoria, è disponibile in una sola dimensione. Dimensioni superiori o inferiori nella categoria Inglese hanno forme completamente diverse.
Arriviamo così alla sezione di Maiuscole tonde, corsive e cancelleresche.
Qui viene abbandonata la catilinaria, sostituita da poche righe di dedica a Cicerone, cittadino romano, oratore eloquentissimo, filosofo, nato nell’anno 647.
Arriviamo a 108 maiuscole tonde, più altre corsive e cancelleresche (17).
E così finisce il primo volume (con il sommario di quanto abbiamo appena detto: nome, numero di alfabeti, pagina di inizio).

Il secondo volume comincia con i caratteri greci ed altri esotici. Specimen numerati, con nota sulla dimensione (Garamone, Lettura...)
Sette pagine dedicate agli ebraici (alcuni con i segni vocalici, altri senza), una all’ebreo-tedesco, poi si comincia col rabbinico, si passa allo stranissimo Caldaico (mai visto prima), al Siriaco, al Siro Estrangh., al Samaritano (anche questo mi giunge nuovo), all’Arabo, al Turco, al Tartaro (varianti dell’Arabo, ma ne esiste anche una versione verticale), al Persiano, all’Etiopico, al Cofto, all’Armeno.
A pagina 87 si arriva all’Etrusco, scritto mi pare da destra a sinistra. C’è poi il Fenicio (in versione di base, ma anche in outline ombreggiata), il Punico, il Palmireno (mai sentito), il Serviano, l’Illirico. L’alfabeto Gotico di Ulfila. Il Giorgiano (georgiano), il Tibetano, il Bracmanico (qualcosa che ha a che fare con l’India, lettere sormontate da una linea orizzontale, che però non riesce a fondersi in una linea continua), il Malabarico.
A pagina 98 comincia la sezione dei caratteri tedeschi e russi.
I tedeschi sono ben pochi, e moderni: qualche versione del Fraktur, dalle belle linee curve. Niente che somigli all’Old English.
Di russo, ovvero cirillico, c’è molto di più. Si arriva fino a pagina 182.
Inizia poi la sezione dedicata a Fregi, segni d’algebra, chimica, astronomia, note musicali e altri oggetti.
Di fregi, ovvero simboli affiancati messi in orizzontale a formare delle linee, ce ne sono tantissimi, quasi mille.
Tra gli altri simboli, quelli delle fasi lunari, i segni dello zodiaco, i pianeti. L’algebra, la geometria, i segni di medicina (per le misure) e le abbreviazioni di valuta: lire, soldi, denari.
Il libro si conclude con le note musicali, nei due stili che abbiamo detto (note isolate da stampare dopo avere stampato il pentagramma, o note+pentagramma in una sola impressione). Più gli spartiti di canto gregoriano.
Dopo il sommario, “Il fine”.
Insomma, è un’opera colossale, che ha richiesto una vita per essere preparata. Non a caso è considerata una pietra miliare del settore.

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