Tre generazioni di fotocompositrici
Un resoconto ordinato e accurato della storia della fotocomposizione si può trovare in inglese nella pagina dedicata alla stampa (printing publishing) dell’enciclopedia Britannica.
Il capitolo sulla fotocomposizione si apre con un breve paragrafo in cui si racconta l’idea nata nell’Ottocento e l’invenzione della Photoline del 1915, “un’equivalente fotografica della Ludlow”, che assembrava matrici di lettere trasparenti per comporre ogni linea dei titoli. Sul web non si trovano informazioni in più. La Ludlow era una macchina in cui le matrici dovevano essere composte a mano. Quello che faceva era solo fondere il piombo da versarci sopra per ottenere una linea completa in un blocco unico, da inchiostrare.
Dopodiché ci sono tre paragrafi separati, ognuno focalizzato su una generazione di macchine fotocompositrici: nella prima categoria rientrano quelle meccaniche, nella seconda quelle funzionali, nella terza quelle elettroniche.
Quelle meccaniche si basavano sull’idea delle matrici, proprio come quelle con cui era realizzata la composizione tradizionale a caldo. Le matrici erano piccoli pezzi metallici, raccolti in vari serbatoi separati, che scorrevano per andare a comporre le parole in un apposito alloggiamento. Se tradizionalmente le matrici avevano la forma delle lettere incavata, in maniera tale da poter formare una scritta in rilievo una volta che veniva versato del piombo fuso che poi si induriva su di esse, nelle prime fotocompositrici ogni matrice aveva una finestrella attraverso cui poteva passare il raggio di luce. Su un vetrino al suo interno c’era la forma della lettera, che sarebbe stata proiettata su carta o pellicola fotografica. Si sta parlando degli anni 40-50.
La seconda generazione di fotocompositrici è quella nella quale vengono eliminati i fattori di inerzia. Invece di avere tante matrici metalliche da mettere in fila, si ha un solo disco di materiale trasparente, con la forma delle lettere impressa. Il disco ruotava in maniera tale da mettere davanti ad una fonte di luce di volta in volta la lettera di cui c’era bisogno, che grazie ad un sistema di lenti e prismi veniva proiettata sulla carta fotografica o pellicola. Siamo sul finire degli anni 40. L’enciclopedia fa il nome di due francesi, inventori della Lumitype e poi della Lithomat. Anche in questo caso le informazioni che si trovano sul web sono scarse e frammentate. La fonte migliore è forse il blog Multimediaman, che mostra foto d’epoca e raccoglie tante informazioni su questo argomento, ma non ha una foto della Lithomat.
Continui miglioramenti vennero apportati a questa tecnologia, e nuovi prodotti vennero lanciati sul mercato fino alla prima metà degli anni Sessanta.
La terza generazione apparve in quello stesso decennio. Qui inizia a sparire il supporto fisico con la forma delle lettere impressa. Nasce l’idea di un proiettore a tubo catodico, sul quale vengono visualizzate le lettere, memorizzate sotto forma di informazioni su nastro magnetico. Qualcosa che si avvicina a quello che è normale al giorno d’oggi. Nelle nostre stampanti non c’è la forma delle lettere da stampare, che viene invece caricata dalla memoria dei computer. Chiaramente le prime compositrici di questa generazione erano completamente diverse da un computer. Mancava per esempio la possibilità di vedere l’anteprima sullo schermo di come sarebbe venuto il risultato finale. Sullo schermo si poteva vedere il testo con i codici (un po’ come visualizzare la sorgente html di una pagina web al giorno d’oggi). Anzi, sulle prime mancava anche il monitor, sostituito da un piccolo display su cui si poteva visualizzare solo una riga per volta, prima di imprimerla sulla pellicola. Ed erano macchine grandi quanto una scrivania da ufficio. Ovviamente questo ramo della stampa è poi confluito nel settore dell’informatica, nel desktop publishing ma non solo, dove per impaginare un testo c’è bisogno di un normale computer e del software adatto.
Il capitolo sulla fotocomposizione si apre con un breve paragrafo in cui si racconta l’idea nata nell’Ottocento e l’invenzione della Photoline del 1915, “un’equivalente fotografica della Ludlow”, che assembrava matrici di lettere trasparenti per comporre ogni linea dei titoli. Sul web non si trovano informazioni in più. La Ludlow era una macchina in cui le matrici dovevano essere composte a mano. Quello che faceva era solo fondere il piombo da versarci sopra per ottenere una linea completa in un blocco unico, da inchiostrare.
Dopodiché ci sono tre paragrafi separati, ognuno focalizzato su una generazione di macchine fotocompositrici: nella prima categoria rientrano quelle meccaniche, nella seconda quelle funzionali, nella terza quelle elettroniche.
Quelle meccaniche si basavano sull’idea delle matrici, proprio come quelle con cui era realizzata la composizione tradizionale a caldo. Le matrici erano piccoli pezzi metallici, raccolti in vari serbatoi separati, che scorrevano per andare a comporre le parole in un apposito alloggiamento. Se tradizionalmente le matrici avevano la forma delle lettere incavata, in maniera tale da poter formare una scritta in rilievo una volta che veniva versato del piombo fuso che poi si induriva su di esse, nelle prime fotocompositrici ogni matrice aveva una finestrella attraverso cui poteva passare il raggio di luce. Su un vetrino al suo interno c’era la forma della lettera, che sarebbe stata proiettata su carta o pellicola fotografica. Si sta parlando degli anni 40-50.
La seconda generazione di fotocompositrici è quella nella quale vengono eliminati i fattori di inerzia. Invece di avere tante matrici metalliche da mettere in fila, si ha un solo disco di materiale trasparente, con la forma delle lettere impressa. Il disco ruotava in maniera tale da mettere davanti ad una fonte di luce di volta in volta la lettera di cui c’era bisogno, che grazie ad un sistema di lenti e prismi veniva proiettata sulla carta fotografica o pellicola. Siamo sul finire degli anni 40. L’enciclopedia fa il nome di due francesi, inventori della Lumitype e poi della Lithomat. Anche in questo caso le informazioni che si trovano sul web sono scarse e frammentate. La fonte migliore è forse il blog Multimediaman, che mostra foto d’epoca e raccoglie tante informazioni su questo argomento, ma non ha una foto della Lithomat.
Continui miglioramenti vennero apportati a questa tecnologia, e nuovi prodotti vennero lanciati sul mercato fino alla prima metà degli anni Sessanta.
La terza generazione apparve in quello stesso decennio. Qui inizia a sparire il supporto fisico con la forma delle lettere impressa. Nasce l’idea di un proiettore a tubo catodico, sul quale vengono visualizzate le lettere, memorizzate sotto forma di informazioni su nastro magnetico. Qualcosa che si avvicina a quello che è normale al giorno d’oggi. Nelle nostre stampanti non c’è la forma delle lettere da stampare, che viene invece caricata dalla memoria dei computer. Chiaramente le prime compositrici di questa generazione erano completamente diverse da un computer. Mancava per esempio la possibilità di vedere l’anteprima sullo schermo di come sarebbe venuto il risultato finale. Sullo schermo si poteva vedere il testo con i codici (un po’ come visualizzare la sorgente html di una pagina web al giorno d’oggi). Anzi, sulle prime mancava anche il monitor, sostituito da un piccolo display su cui si poteva visualizzare solo una riga per volta, prima di imprimerla sulla pellicola. Ed erano macchine grandi quanto una scrivania da ufficio. Ovviamente questo ramo della stampa è poi confluito nel settore dell’informatica, nel desktop publishing ma non solo, dove per impaginare un testo c’è bisogno di un normale computer e del software adatto.
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