Differenza tra font e typeface

Tre giorni fa è uscito un articolo su Creative Bloq che è stato pure condiviso su Twitter da Erik Spiekermann. L’argomento era la distinzione tra font e typeface. In teoria sarebbero due cose diverse. Spesso la differenza viene semplificata così: il font è un file che comprende un insieme di caratteri disegnati nello stesso stile per formare parole, frasi, testi, mentre il typeface sarebbe una famiglia di font in cui alcuni parametri vengono cambiati: ad esempio la larghezza delle lettere, o lo spessore dei tratti. Typeface si tradurrebbe in italiano con “tipo di carattere”, che in effetti non è un’espressione molto usata.
Il Futura è un tipo di carattere, un typeface. Ma dire che un testo è stato composto in Futura potrebbe non rendere pienamente l’idea, visto che il Futura è disponibile in 43 versioni diverse (per la Linotype). Il Futura Light è composto di linee molto sottili, il Futura Extrabold invece è composto di linee molto spesse, ed occupa più spazio in orizzontale. Il Futura Pro Light Condensed oltre che leggero è anche stretto. Il Futura Pro Light Condensed Oblique oltre che leggero e stretto è anche inclinato a destra. E così via.
Il fatto è che al computer è prevista la procedura per installare font, non typefaces. Siti come Myfont, FontShop, Google Fonts eccetera mettono in evidenza la parola font. E scorrendo la lista dei “font” installati viene fuori solo il nome della famiglia. Per passare da uno stile all’altro, italico o grassetto, basta premere un pulsante in un secondo momento. Quindi è normale che la gente cominci ad utilizzare la parola font per indicare il nome che compare nella lista, che spesso è quello della famiglia di font, ovvero del typeface.
A intricare ancora di più la questione c’è il discorso sulla dimensione del testo. Quando i caratteri erano oggetti metallici, la dimensione desiderata era strettamente collegata col concetto di font. Per impaginare un testo in una certa dimensione bisognava comprare un set di caratteri Times New Roman corpo 12. Se si voleva inserirci delle scritte più piccole bisognava farsi arrivare un altro pacco con i caratteri Times New Roman in corpo 10. Si trattava quindi di due font diversi. Nell’era del computer invece la dimensione può essere variata a piacimento all’interno anche avendo a disposizione un solo file. Allora, se abbiamo scaricato da Google un solo file, e con quello abbiamo composto un testo con tanto di titolo in grande e sottotitolo più in piccolo (senza usare neretto e corsivo), possiamo dire che abbiamo usato un solo font, o dobbiamo dire come ai vecchi tempi che ne abbiamo usati tre (grande per il titolo, medio per il sottotitolo e piccolo per il testo?).
A quanto dicono gli addetti ai lavori, la questione non è poi così importante. Almeno, non deve essere trattata a livello ideologico. Capita spesso, anche agli esperti, di usare la parola font come sinonimo di typeface. E finché non si crea un malinteso con conseguenze seccanti, non è un problema. Certo, se si dice a un programmatore di progettare una app per un certo tipo di carattere, e solo quando ha finito gli si pone il problema di usare la versione condensata o neretta questo può vanificare tutto il lavoro già fatto. E c’è poi la questione che i non addetti ai lavori non sanno niente della diatriba terminologica, per cui si riferiscono al font intendendo il typeface. (O parlano di “calligrafia”, come l’odioso cliente della serie animata italiana “10 regole per far impazzire un grafico”, pubblicata anni fa su Youtube).
E l’articolo intrica ancora più le idee inserendo nel discorso i subset, come il cirillico o il greco, all’interno dello stesso file. O dello stesso typeface.
Comunque, la conclusione è che tutto questo non è poi così importante. “Sono più interessato a come i designer pensano che al grado di correttezza della loro terminologia”, dice (traduco sommariamente) uno degli intervistati. Che non è neanche sicuro che agli studenti di design vengano forniti i fondamentali sul linguaggio corretto da utilizzare.
Lingue diverse poi non presentano lo stesso problema che si presenta in inglese.
Comunque, l’importante non è il rispetto di regole nate quando la tecnica era completamente diversa. L’importante è che lavorando non ci siano malintesi. Finché ci si capisce, tutto ok.
In italiano, dove l’articolo maschile è diverso da quello femminile, ha suscitato un certo dibattito anche il genere della parola font. Inizialmente la parola era femminile, visto che era collegata col concetto di fusione delle lettere, e con la lingua francese. Ma nel momento in cui ha cominciato ad indicare un file, e a prendere l’inglese come lingua di riferimento, si è dato per scontato che fosse maschile (come è maschile la parola “carattere”).
Sulla diatriba è stata chiesta l’opinione perfino all’Accademia della Crusca. La quale ha notato che col passare del tempo gli usi al femminile tendono a diminuire, sostituiti da quelli al maschile.
L’Accademia ha anche suggerito di usare il femminile se si sta parlando di caratteri metallici (magari scrivendo fonte, alla francese), e il maschile se si parla di caratteri digitali. Ma il timore è che il maschile sostituirà prima o poi il femminile fino a farlo scomparire del tutto.
Per il libro “Sei proprio il mio typo” del giornalista inglese Simon Garfield, tradotto in italiano tre anni fa, l’editore Tea ha deciso di usare sempre il femminile (ma senza -e finale).

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