Il Fedro di Platone
Al museo di Bassiano dedicato ad Aldo Manuzio c’è uno stanzone che raccoglie una serie di cimeli della storia della scrittura, dalle tavolette cerate romane fino alle macchine da scrivere e ai personal computer. È c’è anche al centro una bella pressa da stampa. In alto una grande iscrizione dedicata alla scrittura: “fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente / non più dall’interno di sé stessi ma dal di fuori, / attraverso segni estranei”.
Al giorno d’oggi questo aspetto viene interpretato come positivo: quando uno ha dimenticato qualcosa, va a leggere dove è scritto se lo ricorda; quando uno non sa cos’è successo, ne legge il resoconto ed è come se avesse assistito.
Ma il contesto da cui è tratta quella frase aveva il significato opposto, cioè tendeva a mettere in luce un aspetto negativo della scrittura.
La frase deriva dal Fedro, uno dei dialoghi di Platone. Nell’opera, Socrate e Fedro sono in campagna, a poca distanza da Atene, all’ombra di un platano, a discutere tra di loro. E Socrate racconta una leggenda egiziana, quella relativa al dio Theuth, inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, del gioco del tavoliere e dei dadi, nonché delle lettere dell’alfabeto. Incontrando il re di Tebe, Thamus, gli mostrò tutte le sue invenzioni, e il re rispose disapprovando ciò che gli sembrava negativo e lodando ciò che gli sembrava positivo.
Arrivati all’alfabeto, Theuth disse: “Questa scienza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”.
Ma il re rispose che in realtà era tutto l’opposto: l’alfabeto “ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né tu offri una vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
Più avanti nel dialogo, il personaggio di Socrate paragona la scrittura alla pittura. I quadri “ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte; crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola, e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no”.
La vera sapienza è quella che si trasmette da maestro a discepolo. Il maestro sa chi merita di sapere qualcosa e chi è in grado di capirla. E anche in quale momento bisogna dirla, non parla a tutti allo stesso modo. Il maestro è in grado di rispondere alle domande del discepolo, fornire argomentazioni e collegamenti, mentre un testo scritto non ne è capace.
Questo non significa che è vietato mettere per iscritto le cose. Solo bisogna considerarlo un gioco, un qualcosa di effimero. Il paragone è quello con i “giardini di Adone”, un rito che si svolgeva nella Grecia dell’epoca, in base al quale si piantavano alcuni semi in piena estate e li si faceva germogliare rapidamente, in pochi giorni, ottenendo piante sterili che subito dopo si seccavano.
Se un contadino ha delle sementi a cui tiene, dice Socrate nel dialogo, non le spreca in questo modo, ma le tiene da parte per seminarle nel terreno giusto, nel periodo giusto, aspettando otto mesi che facciano frutto.
Allo stesso modo chi ha la conoscenza del bello e del giusto non si affiderà alla penna per scrivere parole che non possono parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero. “Ma egli spargerà le sue sementi nei giardini letterari, io credo, e scriverà, quando scriva, solo per gioco, al fine di raccogliere un tesoro di ricordi per suo uso, contro la vecchiaia che porta oblio, quando essa giunga, e per uso di chiunque si metta sulla sua stessa orma”. Gioirà dei frutti di questa attività come la gente si diverte partecipando ai banchetti. “Ma è molto più bello, io penso, occuparsene seriamente quando usando l’arte della dialettica e prendendo un’anima congeniale, vi si piantano e vi si seminano parole con scientifica consapevolezza”. Queste sono le parole che racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano, e sono capaci di rendere questo seme immortale, rendendo beato chi lo possiede.
Socrate, che è probabilmente il personaggio più affascinante della filosofia antica, non ha lasciato trattati scritti contenenti le sue idee. Il suo discepolo Platone ha scritto numerose opere, ma spesso sotto forma di dialogo tra Socrate e i suoi discepoli, in memoria del metodo seguito dal suo maestro.
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