La scrittura Maya
C’è sul web un interessante pdf (in inglese) che insegna ai ragazzi a scrivere il proprio nome usando i geroglifici maya, e a comporre anche brevi frasi. Abbastanza da ottenere un risultato stupefacente. Non è un trattato tecnico, non si perde dietro ipotesi e controversie, ma ripete spesso la parola “fun”, divertimento. A sentire l’autore, gli scribi maya erano dei gran simpaticoni, degli artisti, che non facevano altro che divertirsi ad assemblare in maniera creativa le sillabe per comporre delle parole. E in effetti ci si diverte anche solo a leggere il manuale, anche perché il sistema di scrittura maya è quanto di più assurdo si possa inventare.
Innanzitutto non sembra affatto una scrittura: una pagina di testo appare come un accalcarsi di facce, animali, mani, decorazioni. Un disegno composto da una folla di oggetti indecifrabili e profili degli individui più strani.
I glifi non sono affatto semplici da disegnare. Noi siamo abituati al fatto che per una I ci basta un solo segmento, per una L o una T due, per una W quattro. Ma qui non si tratta di tracciare segmenti: qui si tratta di avere abilità nel disegno. La testa umana non è un cerchio con dei puntini dentro. Magari ha le labbra, i denti, le palpebre i copricapi, gli ornamenti. Senza contare gli animali: per un leopardo bisogna disegnare ogni macchiolina, per un pennuto tutte quante le piume. Insomma una complicazione immane, e questa è una delle prime cose che saltano all’occhio.
C’è da dire che quello maya non è un alfabeto, ma un sillabario. E questo significa che non basta imparare una trentina di segni come con il nostro alfabeto, o quello arabo, ebraico, cirillico, greco eccetera. Bisogna moltiplicare il numero delle consonanti per cinque: esiste un simbolo per dire BA, uno per dire BE, uno per dire BI, eccetera.
Troppo semplice? E allora complichiamo ancora di più: i maya avevano vari simboli per intendere lo stesso suono: per esempio ce ne sono otto solo per la vocale U come sillaba a parte. Lo scriba sceglieva di volta in volta quello che gli piaceva di più per criteri estetici, o perché evocava qualche significato, oppure a seconda della posizione nella parola in cui doveva trovarsi (all’inizio, in mezzo...).
In un testo maya, a parte l’affollamento dei glifi, sembra di intuire un ordine: come se almeno tutti i vari simboli siano allineati in file o in colonne. Ed è vero, solo che ognuno di quei simboli che si riescono a riconoscere non è una sillaba a parte, ma una parola. Cioè le sillabe non vanno messe una di seguito all’altra sullo stesso livello, ma vanno montate insieme in un unico blocco. Seguendo dei criteri ben precisi. La sillaba centrale è più grande e magari va al centro. La prima sillaba della parola va alla sua sinistra, se ce n’è un’altra magari va messa in alto. Una eventuale quarta la si attacca a destra, la quinta in basso. Ovviamente sono previsti schemi diversi a seconda del numero di sillabe, e anche la possibilità di includere un glifo in un altro.
Qualcosa che già di per sé sarebbe un incubo per un programmatore che volesse mettersi in testa di inventare un sistema di traslitterazione in automatico con questo sillabario. Qualsiasi programma di videoscrittura oggi dà per scontato che ogni lettera debba avere sempre la stessa forma, dimensione, orientamento (con tutta una serie di eccezioni secondarie che sono comunque gestibili). Ma per la scrittura maya una sillaba può essere grande, o compressa in altezza, o in larghezza. O attaccata in alto, in basso, a sinistra, a destra. Quindi bisogna di volta in volta cambiarne l’orientamento, oltre che scegliere il glifo che più si adatta a quella funzione.
Va bene, ma almeno il risultato si legge da sinistra a destra? No. Da destra a sinistra? Nemmeno. Dall’alto in basso? Non proprio. Dal basso in alto? Neanche per idea.
Si legge per doppia colonna. Si comincia dalla prima parola della prima riga, in alto a sinistra (e fin qui, tutto normale). Poi si passa alla seconda della prima riga (e ancora va tutto bene). Poi si passa alle prime due della seconda riga, della terza, della quarta e così via. Arrivati in basso si ricomincia da sopra, con la terza e quarta parola della prima riga, terza e quarta della seconda e così via (nel pdf c’è lo schema con tanto di freccette).
Per i ragazzi può essere un gioco semplice e divertente comporre il proprio nome, o il nome della propria città usando questo sistema, soprattutto se sono discendenti dei maya e si incuriosiscono a vedere come scrivevano i loro progenitori. Nel pdf c’è una tabella organizzata secondo il nostro ordine alfabetico, con una consonante per ogni riga e cinque colonne per le varie vocali. In ogni riquadro ci sono i vari simboli corrispondenti alla sillaba desiderata. Più sotto c’è una tabellina per le sostituzioni delle consonanti mancanti, più parecchi paragrafi per spiegare i trucchi da usare per far sì che si pronunci o no la vocale finale.
Il risultato è che si può comporre un discorsetto di una ventina di parole, che ricalca quello che magari si trova veramente su qualche antica iscrizione maya: “Io sono tal dei tali, figlio di.. e di... proveniente dalla città di...”. Se è facile comporre le parole, molto più difficile è decifrare il testo scritto da un altro studente, tenuto conto che bisogna mettersi a cercare nel tabellone ogni componente di ogni disegno, che non necessariamente è stata ripetuta nelle stesse proporzioni e nello stesso orientamento, e che vista la complessità del disegno probabilmente è venuta distorta anche in maniera molto consistente (se uno non è capace di disegnare, facile che venga fuori uno sgorbio, o che in un primo momento non riesca a regolarsi, sforando dai confini del riquadro a disposizione).
Difficile pensare anche ad un software di riconoscimento automatico in grado di trascrivere un testo scritto con questa tecnica: i software commerciali vengono ingannati perfino quando le lettere latine vengono scritte un po’ ondulate e distorte in mezzo a un disturbo, che invece un essere umano distingue facilmente. L’unico modo di decifrare una scritta maya è che qualcuno in carne ed ossa e con i rudimenti delle regole di base ci si metta al lavoro con un bel po’ di pazienza.
Wikipedia in inglese dice che qualcuno aveva proposto di riservare un certo spazio in Unicode per i simboli maya, ma la proposta è rimasta vaga.
Secondo il pdf i glifi utilizzati per le sillabe in epoca classica erano 200-250 a cui bisognava aggiungere 500 logogrammi (il doppio!), ovvero simboli che richiamavano l'intera parola. Ad esempio il giaguaro aveva un simbolo a sé. Se lo scriba doveva nominare un giaguaro, poteva scegliere se usare il glifo che simboleggiava quell’animale (unico, indipendentemente dal numero di sillabe che componevano la parola) oppure montare insieme le varie sillabe per indicare la pronuncia.
Innanzitutto non sembra affatto una scrittura: una pagina di testo appare come un accalcarsi di facce, animali, mani, decorazioni. Un disegno composto da una folla di oggetti indecifrabili e profili degli individui più strani.
I glifi non sono affatto semplici da disegnare. Noi siamo abituati al fatto che per una I ci basta un solo segmento, per una L o una T due, per una W quattro. Ma qui non si tratta di tracciare segmenti: qui si tratta di avere abilità nel disegno. La testa umana non è un cerchio con dei puntini dentro. Magari ha le labbra, i denti, le palpebre i copricapi, gli ornamenti. Senza contare gli animali: per un leopardo bisogna disegnare ogni macchiolina, per un pennuto tutte quante le piume. Insomma una complicazione immane, e questa è una delle prime cose che saltano all’occhio.
C’è da dire che quello maya non è un alfabeto, ma un sillabario. E questo significa che non basta imparare una trentina di segni come con il nostro alfabeto, o quello arabo, ebraico, cirillico, greco eccetera. Bisogna moltiplicare il numero delle consonanti per cinque: esiste un simbolo per dire BA, uno per dire BE, uno per dire BI, eccetera.
Troppo semplice? E allora complichiamo ancora di più: i maya avevano vari simboli per intendere lo stesso suono: per esempio ce ne sono otto solo per la vocale U come sillaba a parte. Lo scriba sceglieva di volta in volta quello che gli piaceva di più per criteri estetici, o perché evocava qualche significato, oppure a seconda della posizione nella parola in cui doveva trovarsi (all’inizio, in mezzo...).
In un testo maya, a parte l’affollamento dei glifi, sembra di intuire un ordine: come se almeno tutti i vari simboli siano allineati in file o in colonne. Ed è vero, solo che ognuno di quei simboli che si riescono a riconoscere non è una sillaba a parte, ma una parola. Cioè le sillabe non vanno messe una di seguito all’altra sullo stesso livello, ma vanno montate insieme in un unico blocco. Seguendo dei criteri ben precisi. La sillaba centrale è più grande e magari va al centro. La prima sillaba della parola va alla sua sinistra, se ce n’è un’altra magari va messa in alto. Una eventuale quarta la si attacca a destra, la quinta in basso. Ovviamente sono previsti schemi diversi a seconda del numero di sillabe, e anche la possibilità di includere un glifo in un altro.
Qualcosa che già di per sé sarebbe un incubo per un programmatore che volesse mettersi in testa di inventare un sistema di traslitterazione in automatico con questo sillabario. Qualsiasi programma di videoscrittura oggi dà per scontato che ogni lettera debba avere sempre la stessa forma, dimensione, orientamento (con tutta una serie di eccezioni secondarie che sono comunque gestibili). Ma per la scrittura maya una sillaba può essere grande, o compressa in altezza, o in larghezza. O attaccata in alto, in basso, a sinistra, a destra. Quindi bisogna di volta in volta cambiarne l’orientamento, oltre che scegliere il glifo che più si adatta a quella funzione.
Va bene, ma almeno il risultato si legge da sinistra a destra? No. Da destra a sinistra? Nemmeno. Dall’alto in basso? Non proprio. Dal basso in alto? Neanche per idea.
Si legge per doppia colonna. Si comincia dalla prima parola della prima riga, in alto a sinistra (e fin qui, tutto normale). Poi si passa alla seconda della prima riga (e ancora va tutto bene). Poi si passa alle prime due della seconda riga, della terza, della quarta e così via. Arrivati in basso si ricomincia da sopra, con la terza e quarta parola della prima riga, terza e quarta della seconda e così via (nel pdf c’è lo schema con tanto di freccette).
Per i ragazzi può essere un gioco semplice e divertente comporre il proprio nome, o il nome della propria città usando questo sistema, soprattutto se sono discendenti dei maya e si incuriosiscono a vedere come scrivevano i loro progenitori. Nel pdf c’è una tabella organizzata secondo il nostro ordine alfabetico, con una consonante per ogni riga e cinque colonne per le varie vocali. In ogni riquadro ci sono i vari simboli corrispondenti alla sillaba desiderata. Più sotto c’è una tabellina per le sostituzioni delle consonanti mancanti, più parecchi paragrafi per spiegare i trucchi da usare per far sì che si pronunci o no la vocale finale.
Il risultato è che si può comporre un discorsetto di una ventina di parole, che ricalca quello che magari si trova veramente su qualche antica iscrizione maya: “Io sono tal dei tali, figlio di.. e di... proveniente dalla città di...”. Se è facile comporre le parole, molto più difficile è decifrare il testo scritto da un altro studente, tenuto conto che bisogna mettersi a cercare nel tabellone ogni componente di ogni disegno, che non necessariamente è stata ripetuta nelle stesse proporzioni e nello stesso orientamento, e che vista la complessità del disegno probabilmente è venuta distorta anche in maniera molto consistente (se uno non è capace di disegnare, facile che venga fuori uno sgorbio, o che in un primo momento non riesca a regolarsi, sforando dai confini del riquadro a disposizione).
Difficile pensare anche ad un software di riconoscimento automatico in grado di trascrivere un testo scritto con questa tecnica: i software commerciali vengono ingannati perfino quando le lettere latine vengono scritte un po’ ondulate e distorte in mezzo a un disturbo, che invece un essere umano distingue facilmente. L’unico modo di decifrare una scritta maya è che qualcuno in carne ed ossa e con i rudimenti delle regole di base ci si metta al lavoro con un bel po’ di pazienza.
Wikipedia in inglese dice che qualcuno aveva proposto di riservare un certo spazio in Unicode per i simboli maya, ma la proposta è rimasta vaga.
Secondo il pdf i glifi utilizzati per le sillabe in epoca classica erano 200-250 a cui bisognava aggiungere 500 logogrammi (il doppio!), ovvero simboli che richiamavano l'intera parola. Ad esempio il giaguaro aveva un simbolo a sé. Se lo scriba doveva nominare un giaguaro, poteva scegliere se usare il glifo che simboleggiava quell’animale (unico, indipendentemente dal numero di sillabe che componevano la parola) oppure montare insieme le varie sillabe per indicare la pronuncia.
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