Cosa si stampava nel Quattrocento
Un articolo del 2017 pubblicato sul sito I Love Typography accenna a cosa si stampava nel primo mezzo secolo di storia della tipografia (dal 1450 al 1500). Prima dell’invenzione della stampa si stima vennero copiati a mano 10 milioni di manoscritti. Mentre nei primi cinquant’anni di storia della tipografia vennero stampate tredici milioni di copie in trenta mila edizioni diverse. Insomma, più libri in cinquant’anni che in tutto il periodo precedente, dall’inizio del mondo.
Di che cosa si trattava? Soprattutto opere religiose: molti libri liturgici, come salteri e messali, poi libri più piccoli per uso devozionale privato, liturgia delle ore e libri di preghiera. Poi Bibbie e commenti sulla bibbia, libri di legge ecclesiastica, editti e bolle papali.
E poi c’era il culto dei classici, il cui latino veniva preso a modello. Si parla di almeno trecento edizioni di Cicerone solo nel quindicesimo secolo. L’articolo stima che il 15% degli incunaboli era dedicato ad autori classici.
L’autore si sofferma su un’opera in particolare, De Rerum Natura, di Lucrezio, il cui manoscritto era stato ritrovato dopo un lungo oblio medievale dall’italiano Poggio Bracciolini in un monastero tedesco nel 1417, e stampato da un certo Thomas Ferrandus all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento forse a Brescia. Di Ferrandus non si sa nulla, forse imparò a stampare a Venezia. Non ci sono scannerizzazioni di questa prima edizione, ma il sito pubblica due foto di altri incunaboli dedicati allo stesso titolo: uno stampato da Paulus Fridenperger a Verona nel 1486, l’altro da Manuzio nel 1500, a Venezia.
Dal punto di vista tipografico si notano in entrambi i casi le e col trattino centrale in salita, l’uso della s lunga in mezzo alla parola e della s normale in finale, e nel primo caso l’uso di parecchie legature (st, fl ma anche ct) e perfino di abbreviazione in termine di parola (una specie di numero 3 dopo la q per dire -que, una specie di 9 per dire -us; tutto il testo è in latino, ovviamente).
Nel primo caso l’iniziale di ogni riga è in maiuscolo (sembra una pagina di versi). Nel secondo caso la foto raffigura un’altra pagina, contenente le prime righe del libro primo. C’è un bel capolettera con degli intrecci celtici molto larghi. A parte la e in salita, la s lunga e la legatura ae non noto abbreviazioni o altre cose strane. L’allineamento è a sinistra, con degli a-capo visivamente molto strani (la parola hominum viene spezzata anche se c’era ancora spazio, un’altra riga viene lasciata vuota per metà). Forse la cosa più insolita per i nostri standard è l’uso delle virgole. Oggi diamo per scontato che bisogna mettere la virgola attaccata alla parola che precede, senza nessuno spazio intermedio. Poi si digita lo spazio, e poi inizia la parola successiva. Manuzio invece a volte non mette nessuno spazio, né prima né dopo, altre volte ci mette dello spazio prima, attaccando la virgola alla parola successiva. Ma non necessariamente uno spazio standard come quello che conosciamo noi: uno spazio stretto. Nel caso della prima virgola sembra esserci spazio sia prima che dopo, ma non della stessa larghezza.
Insomma, questa questione non era ancora ben definita cinque secoli fa, mi sembra.
Di che cosa si trattava? Soprattutto opere religiose: molti libri liturgici, come salteri e messali, poi libri più piccoli per uso devozionale privato, liturgia delle ore e libri di preghiera. Poi Bibbie e commenti sulla bibbia, libri di legge ecclesiastica, editti e bolle papali.
E poi c’era il culto dei classici, il cui latino veniva preso a modello. Si parla di almeno trecento edizioni di Cicerone solo nel quindicesimo secolo. L’articolo stima che il 15% degli incunaboli era dedicato ad autori classici.
L’autore si sofferma su un’opera in particolare, De Rerum Natura, di Lucrezio, il cui manoscritto era stato ritrovato dopo un lungo oblio medievale dall’italiano Poggio Bracciolini in un monastero tedesco nel 1417, e stampato da un certo Thomas Ferrandus all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento forse a Brescia. Di Ferrandus non si sa nulla, forse imparò a stampare a Venezia. Non ci sono scannerizzazioni di questa prima edizione, ma il sito pubblica due foto di altri incunaboli dedicati allo stesso titolo: uno stampato da Paulus Fridenperger a Verona nel 1486, l’altro da Manuzio nel 1500, a Venezia.
Dal punto di vista tipografico si notano in entrambi i casi le e col trattino centrale in salita, l’uso della s lunga in mezzo alla parola e della s normale in finale, e nel primo caso l’uso di parecchie legature (st, fl ma anche ct) e perfino di abbreviazione in termine di parola (una specie di numero 3 dopo la q per dire -que, una specie di 9 per dire -us; tutto il testo è in latino, ovviamente).
Nel primo caso l’iniziale di ogni riga è in maiuscolo (sembra una pagina di versi). Nel secondo caso la foto raffigura un’altra pagina, contenente le prime righe del libro primo. C’è un bel capolettera con degli intrecci celtici molto larghi. A parte la e in salita, la s lunga e la legatura ae non noto abbreviazioni o altre cose strane. L’allineamento è a sinistra, con degli a-capo visivamente molto strani (la parola hominum viene spezzata anche se c’era ancora spazio, un’altra riga viene lasciata vuota per metà). Forse la cosa più insolita per i nostri standard è l’uso delle virgole. Oggi diamo per scontato che bisogna mettere la virgola attaccata alla parola che precede, senza nessuno spazio intermedio. Poi si digita lo spazio, e poi inizia la parola successiva. Manuzio invece a volte non mette nessuno spazio, né prima né dopo, altre volte ci mette dello spazio prima, attaccando la virgola alla parola successiva. Ma non necessariamente uno spazio standard come quello che conosciamo noi: uno spazio stretto. Nel caso della prima virgola sembra esserci spazio sia prima che dopo, ma non della stessa larghezza.
Insomma, questa questione non era ancora ben definita cinque secoli fa, mi sembra.
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