Documentario sull’Helvetica gratis fino al 24

Visto che la crisi del coronavirus obbliga le persone a stare chiuse in casa, il Filmmaker Gary Hustwit ha deciso di trasmettere gratuitamente in streaming i suoi documentari (in inglese, con sottotitoli anche in altre lingue, ma non in italiano), uno a settimana. Da martedì scorso e fino a martedì prossimo (dal 17 al 24 marzo 2020) sul sito è possibile vedere il documentario sull’Helvetica, che dura un’ora e venti e include interviste ad alcuni dei principali designer di font della seconda metà del Novecento.
Il documentario comincia con le suggestive immagini di come si componeva a mano una scritta in Helvetica con i caratteri mobili in metallo, e in ogni città che viene attraversata ci si sofferma sulle scritte in Helvetica, praticamente onnipresenti tra Europa e America.
Il primo personaggio che viene intervistato ha un nome italiano, Massimo Vignelli. Negli anni Sessanta ha partecipato all’ascesa dell’Helvetica. E può tirare fuori ricordi dal passato: quando nel 1966 bisognò decidere il logo della American Airlines, la scelta innovativa per l’epoca fu quella di unire le due parole, scritte in Helvetica, colorandole in maniera diversa. In quarant’anni, il logo dell’azienda non è ancora cambiato, a differenza di ciò che hanno fatto le altre compagnie. Non possono migliorare, perché hanno già il meglio, scherza Vignelli.
“Puoi dire Ti amo in Helvetica. Puoi dirlo con l’Helvetica Extra Light se vuoi essere molto fancy o puoi dirlo con l’Extra Bold se è un amore molto intenso o passionale, e può funzionare lo stesso”, dice ancora l’intervistato.
Le origini dell’Helvetica vengono fatte risalire al clima che si era creato negli anni Cinquanta, subito dopo la guerra, quando c’era l’entusiasmo di ricostruire ciò che era andato distrutto. Questa parte la racconta Rick Poynor, scrittore che si occupa di design. Ovviamente tra le varie immagini che scorrono mentre parla c’è il manifesto della 500 miglia di Monza realizzato da Max Huber, un classico della storia del design.
Segue la testimonianza di Wim Crowel, che racconta di come usava griglie regolari per mettere a punto manifesti o guide di musei. Prima dell’arrivo del computer ci volevano giorni per realizzare un progetto, scattare le foto, ritagliare, mentre ora col computer in mezz’ora si possono preparare diverse varianti e scegliere la migliore. “Col computer non puoi ottenere un design migliore, ma puoi velocizzare di molto i tempi”. Inizialmente per i suoi progetti Crowel aveva pensato di usare altri font, per poi virare sull’Helvetica. Il carattere doveva essere neutrale, si pensava all’epoca, non doveva avere nessun significato in sé: tutto il significato doveva essere nel contenuto del testo, racconta Crowel.
La voce successiva è quella di Matthew Carter (Verdana, Georgia), il quale comincia descrivendo le reazioni della gente quando dice che è un disegnatore di caratteri: o non sanno cos’è, o pensano a qualcosa di un lontano passato. Carter spiega il suo metodo di disegno: si comincia con la lettera h, che già dice se si tratta di un serif o un sans. Nel primo caso si decide la forma delle grazie: sottili? Spesse? E si decide quale contrasto dare ai tratti (ovvero la differenza tra i tratti più spessi e quelli più sottili). Dalla h si deduce anche la proporzione dei tratti ascendenti rispetto alla cosiddetta altezza della x. Poi vicino alla h ci mette una o, per studiare quanto il tratto orizzontale deve essere più stretto di quello verticale. La lettera successiva è la p, “mezza rettilinea e mezza curva”, e ha un tratto discendente. Dalla h derivano la n e la u. Dalla p si possono ottenere q e d. Prima possibile bisogna iniziare a comporre le parole, che è la prova fondamentale per capire se un certo dettaglio è gradevole nell’uso o no.
Carter si sofferma poi sul taglio orizzontale dei terminali di molte lettere, maiuscole e minuscole (c-e-G-5), segno distintivo dell’Helvetica.
Seguono inquadrature del vecchio stabilimento della fonderia Haas, dove l’Helvetica è nato col nome di Neue Haas Grotesk, a Munchenstein, in Svizzera, ovviamente, e l’intervista al vecchio direttore, Alfred Hoffmann.
Mike Parker, direttore del settore sviluppo tipografico della Mergenthaler Linotype Usa tra gli anni 60 e l’inizio degli 80 ricorda l’importanza che dovette avere Eduard Hoffman (il padre dell’Hoffmann intervistato) nello sviluppo del nuovo carattere: era lui la mente, colui che suggeriva i cambiamenti da fare. Miedinger non aveva neanche aspirazioni da disegnatore, ma da venditore, sembra.
Haas era controllata da Stempel, che a sua volta era controllata da Linotype, il cui quartier generale è tuttora a Bad Homburg, in Germania. L’Helvetica oggi è di proprietà di Linotype.
Otman Hoefer, direttore del font marketing dell’azienda, conduce il documentarista negli archivi dell’edificio per trovare materiale d’epoca relativo all’Helvetica. E in un faldone ci sono i disegni originali.
L’ex direttore marketing della Linotype, Bruno Steinert, ha anche lui qualcosa da dire nel documentario. Il cambio di nome, da Neue Haas Grotesk a Helvetica venne suggerito in vista del lancio negli Stati Uniti. Serviva un nome più pratico, la prima idea fu Helvetia (il nome latino della Svizzera), che poi venne scartato perché non sembrava una buona idea dare il nome di un Paese a un font. Così venne scelto quello attuale, che va inteso come aggettivo: l’Helvetica è il carattere svizzero per definizione.
Nel video compare anche Herman Zapf.
Michael Bierut, graphic desiger, racconta il periodo in cui si sono cominciate a sostituire insegne vecchie e polverose con la “splendente bellezza” dell’Helvetica. E sfoglia una vecchia copia di Life Magazine del 1953, per mostrare quanto era lontano lo stile delle pubblicità dell’epoca da quello moderno: c’erano ovunque lettere tracciate a mano, punti esclamativi, altri elementi insoliti o comunque discorsivi. Un esempio che fa il designer è quello della pubblicità della Coca Cola. Prima dell’Helvetica: una famigliola sorridente che si gusta la bevanda, e sotto lo slogan “Almost everyone appreciates the best...” scritto in un calligrafico che si usa per gli inviti ai matrimoni. Dopo la rivoluzione, il bicchiere a tutta pagina, senza persone intorno, e una grande scritta sotto, in Helvetica “It’s the real thing. Coke.” (e qui il designer sottolinea due volte la parola “period”, il punto che c’è al termine di ogni riga).
Leslie Savan, una scrittrice che si occupa di mass media, dice che l’Helvetica si contrappone ai font che suggeriscono che una certa azienda/istituzione sia oppressiva, autoritaria e burocratica. È un font umano, che suggerisce idee di accessibilità e trasparenza.
Compaiono poi Jonathan Hoefler e Tobias Frere-Jones: il primo dice che l’Helvetica si adatta alle interpretazioni più diverse a seconda del contesto in cui lo si usa, al di là di peso, colore e spaziatura tra i caratteri. Il secondo mostra a sua collezione di vecchi cartelli stradali (più appariscenti di quelli attuali, per quanto riguarda i nomi delle vie) e si sofferma sul modo in cui il font usato influisce sul contenuto del messaggio anche su quelle persone che non ci fanno mente locale.
Erik Spiekermann si presenta parlando della sua passione per i caratteri come fosse una malattia, non mortale ma incurabile. Per quanto riguarda l’Helvetica non è entusiasta: “era un buon carattere”, dice, subito dopo essersi lasciato scappare una frase sul “cattivo gusto” che è ubiquo. “All’epoca era la risposta a una domanda”, dice, ma ora è diventato un default, qualcosa da usare per forza. Come respiri l’aria, così devi usare l’Helvetica. Anche per colpa dei computer, di Apple soprattutto (e di Microsoft che ha copiato la Apple: l’Arial è “peggiore” del suo modello, ma serve a soddisfare gli stessi bisogni). L’Helvetica necessita di troppo spazio intorno. E le lettere sono tutte uguali, non è previsto l’individualismo, Spiekermann parla addirittura di “ideologia svizzera”. Infine fa l’esempio della Marlboro, che ha un suo font, Neo Contact, che la rende riconoscibilissima anche a distanza. Se avessero puntato sull’Helvetica, il risultato non sarebbe stato lo stesso.
Neville Brody dice che lo stesso messaggio, in tre font diversi, suscita risposte diverse da parte del pubblico.
Lars Muller, editore e graphic designer, discute se sia più giusto considerare l’Helvetica come il font del capitalismo o quello del socialismo (la seconda, a suo giudizio).
Paula Scher parla di corporate culture, e non in senso positivo: le corporation che quando lei era studentessa puntavano molto sull’Helvetica “mi sembravano troppo fasciste”. A parte che quel tipo di design era troppo pulito, e le ricordava sua madre che insisteva perché lei tenesse pulita la stanza (cosa contro cui lei si ribellava), il fatto era che quelle stesse corporation erano accusate di sostenere la guerra nel Vietnam, quindi le osteggiava per motivi politici, e di conseguenza non vedeva di buon occhio l’Helvetica.
Stefan Sagmeister pensa che l’Helvetica sia noioso.
Più avanti il documentario si sofferma sulla rivolta che c’è stata contro l’Helvetica negli anni Settanta e Ottanta, e ricompare Vignelli, che ovviamente era molto perplesso dalle nuove tendenze.
Le quali sono rappresentate nel filmato da David Carson, di cui vengono inquadrati i disordinatissimi lavori, e di cui viene raccolta la testimonianza: lui si dedicava semplicemente a sperimentare, senza capire in cosa si andava ad inserire; semplicemente provava, e alcune di queste prove uscivano male. Ma non era un problema (si occupava di una rivista, non certo dei loghi delle aziende). La sua prospettiva non è quella di chi disegna una newsletter o un biglietto da visita, una cosa che si può insegnare facilmente a qualcuno, trattandosi di un’attività prevedibile; ma è quella di disegnare la copertina di un cd che rispecchi la musica che c’è all’interno.
Un articolo della rivista era così noioso che l’ha impaginato in Zapf Dingbat, rendendolo completamente illeggibile. Tanto non valeva la pena, per quello che c’era scritto...
Si fa tappa in Olanda, dove lavorano Erwin Brinkers, Marieke Stolk, Danny van den Dungen. Quest’ultimo nomina David Carson, Emigre, Fuse, Neville Brody, ma dice di non preoccuparsi del presunto collegamento tra l’Helvetica e i pericoli della globalizzazione e standardizzazione. Si può usare lo stesso font in maniere molto diverse. “Il modo in cui lo usava Crouwel è tipicamente olandese”, dice l’intervistato. L’Helvetica non è un mostro globale, conclude.
Michael Place è un personaggio sui generis che mostra alcuni dei suoi lavori artistici, tra cui una scritta “Symbolism” ottenuta mettendo insieme i simboli di un comune dingbat. Place ha cercato di usare l’Helvetica in maniera creativa, di farlo parlare con una voce nuova (nel video si vede una scritta Helvetica Type realizzata con due + di un colore diverso come prima lettera di entrambe le parole, nel primo caso combinato con una I). Voleva pure mettere un ringraziamento al disegnatore dell’Helvetica sulle sue partecipazioni di matrimonio, ma la moglie si è opposta.
Si va Zurigo (inquadrature varie dell’onnipresente Helvetica) e Manuel Krebs e Dimitri Bruni, secondo cui più limiti ci sono e meglio è; loro evitano i font umanistici.
Carrellata finale con dichiarazioni più generiche degli intervistati già comparsi. Il documentario è incentrato sull’Helvetica ma la sua prospettiva è più ampia, finendo per indagare più in generale il modo in cui le persone si rapportano con i font, il modo in cui i type designer vedono il mondo, i fattori che pesano in generale sul successo di un font.
Se c’è un lato positivo di questa emergenza coronavirus è che da la possibilità di vedere gratuitamente documentari come questo e di farsi un po’ di cultura su come funziona il mondo, o almeno il mondo della tipografia.

Commenti

Post più popolari