Ink traps
Non c’è una pagina di Wikipedia dedicata alle ink traps in italiano (e neanche in spagnolo o in tedesco). Ma in inglese sì: è di poche righe, ma contiene anche un’immagine che mostra come sono fatte le ink traps in un carattere tipografico.
Il problema di partenza è questo: quando si va a stampare su carta, l’inchiostro in prossimità degli angoli tende a discostarsi dalla linea che dovrebbe seguire, e questo altera la forma della lettera, in modo notevole se la dimensione del carattere è molto piccola. Per questo motivo i disegnatori possono usare qualche accorgimento: distorcendo volontariamente il contorno del carattere in prossimità degli angoli, in direzione opposta a quella in cui si allarga l’inchiostro. Il risultato è una forma che se vista in grande sembra sbagliata (guardare il numero 4 dell’esempio, tratto dal font Bell Centennial di Matthew Carter) mentre quando viene stampata in piccolo produce la forma esatta che aveva in mente il disegnatore.
Ovviamente sul web una tecnologia del genere non ha senso, visto che qualsiasi scritta, per quanto piccola, può essere ingrandita a piacimento, mentre invece assume importanza quando si ha a che fare con documenti stampati. Gli elenchi telefonici, ad esempio, con migliaia di nomi e numeri scritti in piccolo, facevano uso di caratteri con ink traps, come anche i giornali cartacei che pubblicano intere paginate di quotazioni di borsa, con nomi, numeri e percentuali scritti in piccolo.
Dice Wikipedia che alcuni font con ink traps sono disponibili anche in versione senza, per potere inserire nel testo scritte in grande nello stesso stile.
L’articolo elenca tre font dotati di ink traps: oltre al Bell Centennial dell’esempio, vengono nominati il Retina e il Tang.
Un articolo di quattro anni fa su Wired dava il benvenuto al lettore con un’immagine che metteva a confronto la versione Microplus del Retina con la versione Standard. Ovviamente la prima appare sbagliatissima, se uno non conosce quale è il motivo di quella distorsione.
Il font è stato disegnato da Frere-Jones valutando il risultato in una stampa a grandezza 5.5 punti su carta scadente da giornale.
Le scelte non sono state arbitrarie e teoriche, ma sono la conseguenza di una serie di tentativi ed errori: si osservava il risultato su carta, si correggeva quello che si riteneva sbagliato, si stampava di nuovo e così via.
Il disegnatore si è anche dovuto documentare su ciò che gli psicologi hanno scritto in materia di lettura.
L’articolo dice che qualcosa di simile alle ink-traps vale (o valeva) anche per il video: alla fine degli anni Sessanta la Cbs sostituì il tipo di carattere usato per le scritte sullo schermo con uno pensato appositamente con delle lacune, per ottenere l’effetto visivo giusto tenendo conto dei pixel sugli schermi a tubo catodico che si usavano all’epoca.
In Italia si è parlato di questa tecnica qualche anno fa (2017) quando Antonio Cavedoni (che fa parte del Type Group della Apple) e Elisa Rebellato hanno messo a punto una mostra dedicata al “Metodo Simoncini” che ottenne un certo risalto sulla stampa. I due avevano cominciato a fare delle ricerche separatamente sulla Simoncini, storica (e semi-sconosciuta) industria italiana che produceva matrici per linotype, finendo poi per proseguire insieme.
Tra i caratteri elaborati da Simoncini c’era anche il Delia. Il quale “ha delle soluzioni incredibili perché, visto ingrandito, sembra distorto. Ogni linea infatti è pensata per la resa in piccolo, come appunto sugli elenchi telefonici”, ha spiegato Cavedoni. Che è rimasto stupito dal fatto che su questo tipo di carattere “non c’è praticamente letteratura. Nessuno lo conosceva. Essendo molto specifico, non ha venduto molte licenze”.
Negli articoli sull’argomento non si dà mai un nome a queste distorsioni. A me è venuto spontaneo chiamarle al femminile, visto che per me “trap” significa “trappola” che è femminile, ma trovo che qualcuno tra quei pochi che hanno usato il termine in italiano ha scelto il maschile (Giò Fuga). Che pure può avere senso: “trap” significa anche “tranello”. In inglese il problema non si pone, trattandosi di un nome neutro per cui non si usa né il pronome “he” né “she” bensì il pronome “it” (mentre gli articoli non hanno comunque un genere: “an”, “the”).
Fonts In Use ha classifcato una dozzina di segnalazioni con il tag “ink traps”, attingendo la definizione da Wikipedia: si tratterebbe di “incavi aggiunti alle giunture per minimizzare o dirigere lo spargimento dell’inchiostro, così che le forme della lettera rimangano attraenti anche quando stampate a piccole dimensioni. Le ink traps sono progettate per essere invisibili nel lavoro finale” (provo a tradurre in maniera un po’ rudimentale dall’inglese). “A volte questa caratteristica viene riproposta in grande per effetto stilistico”.
E infatti ci sono segnalazioni del Whyte Inktrap, del Minotaur Beef, del Gemeli Micro o dell’Halyard Micro usati per le intestazioni sulle copertine di libri, riviste, opuscoli.
Il problema di partenza è questo: quando si va a stampare su carta, l’inchiostro in prossimità degli angoli tende a discostarsi dalla linea che dovrebbe seguire, e questo altera la forma della lettera, in modo notevole se la dimensione del carattere è molto piccola. Per questo motivo i disegnatori possono usare qualche accorgimento: distorcendo volontariamente il contorno del carattere in prossimità degli angoli, in direzione opposta a quella in cui si allarga l’inchiostro. Il risultato è una forma che se vista in grande sembra sbagliata (guardare il numero 4 dell’esempio, tratto dal font Bell Centennial di Matthew Carter) mentre quando viene stampata in piccolo produce la forma esatta che aveva in mente il disegnatore.
Ovviamente sul web una tecnologia del genere non ha senso, visto che qualsiasi scritta, per quanto piccola, può essere ingrandita a piacimento, mentre invece assume importanza quando si ha a che fare con documenti stampati. Gli elenchi telefonici, ad esempio, con migliaia di nomi e numeri scritti in piccolo, facevano uso di caratteri con ink traps, come anche i giornali cartacei che pubblicano intere paginate di quotazioni di borsa, con nomi, numeri e percentuali scritti in piccolo.
Dice Wikipedia che alcuni font con ink traps sono disponibili anche in versione senza, per potere inserire nel testo scritte in grande nello stesso stile.
L’articolo elenca tre font dotati di ink traps: oltre al Bell Centennial dell’esempio, vengono nominati il Retina e il Tang.
Un articolo di quattro anni fa su Wired dava il benvenuto al lettore con un’immagine che metteva a confronto la versione Microplus del Retina con la versione Standard. Ovviamente la prima appare sbagliatissima, se uno non conosce quale è il motivo di quella distorsione.
Il font è stato disegnato da Frere-Jones valutando il risultato in una stampa a grandezza 5.5 punti su carta scadente da giornale.
Le scelte non sono state arbitrarie e teoriche, ma sono la conseguenza di una serie di tentativi ed errori: si osservava il risultato su carta, si correggeva quello che si riteneva sbagliato, si stampava di nuovo e così via.
Il disegnatore si è anche dovuto documentare su ciò che gli psicologi hanno scritto in materia di lettura.
L’articolo dice che qualcosa di simile alle ink-traps vale (o valeva) anche per il video: alla fine degli anni Sessanta la Cbs sostituì il tipo di carattere usato per le scritte sullo schermo con uno pensato appositamente con delle lacune, per ottenere l’effetto visivo giusto tenendo conto dei pixel sugli schermi a tubo catodico che si usavano all’epoca.
In Italia si è parlato di questa tecnica qualche anno fa (2017) quando Antonio Cavedoni (che fa parte del Type Group della Apple) e Elisa Rebellato hanno messo a punto una mostra dedicata al “Metodo Simoncini” che ottenne un certo risalto sulla stampa. I due avevano cominciato a fare delle ricerche separatamente sulla Simoncini, storica (e semi-sconosciuta) industria italiana che produceva matrici per linotype, finendo poi per proseguire insieme.
Tra i caratteri elaborati da Simoncini c’era anche il Delia. Il quale “ha delle soluzioni incredibili perché, visto ingrandito, sembra distorto. Ogni linea infatti è pensata per la resa in piccolo, come appunto sugli elenchi telefonici”, ha spiegato Cavedoni. Che è rimasto stupito dal fatto che su questo tipo di carattere “non c’è praticamente letteratura. Nessuno lo conosceva. Essendo molto specifico, non ha venduto molte licenze”.
Negli articoli sull’argomento non si dà mai un nome a queste distorsioni. A me è venuto spontaneo chiamarle al femminile, visto che per me “trap” significa “trappola” che è femminile, ma trovo che qualcuno tra quei pochi che hanno usato il termine in italiano ha scelto il maschile (Giò Fuga). Che pure può avere senso: “trap” significa anche “tranello”. In inglese il problema non si pone, trattandosi di un nome neutro per cui non si usa né il pronome “he” né “she” bensì il pronome “it” (mentre gli articoli non hanno comunque un genere: “an”, “the”).
Fonts In Use ha classifcato una dozzina di segnalazioni con il tag “ink traps”, attingendo la definizione da Wikipedia: si tratterebbe di “incavi aggiunti alle giunture per minimizzare o dirigere lo spargimento dell’inchiostro, così che le forme della lettera rimangano attraenti anche quando stampate a piccole dimensioni. Le ink traps sono progettate per essere invisibili nel lavoro finale” (provo a tradurre in maniera un po’ rudimentale dall’inglese). “A volte questa caratteristica viene riproposta in grande per effetto stilistico”.
E infatti ci sono segnalazioni del Whyte Inktrap, del Minotaur Beef, del Gemeli Micro o dell’Halyard Micro usati per le intestazioni sulle copertine di libri, riviste, opuscoli.
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