Linotype quotidiani
I quotidiani sono molto presenti sul web. E sono sempre pronti a festeggiare le ricorrenze, commemorare le stragi, raccontarci come si viveva cinquant’anni fa, eccetera. Però su sé stessi sono molto più avari di notizie. A chi cerca quale era il dibattito politico nel dopoguerra, o all’epoca della contestazione, o negli anni di piombo raccontano di tutto e di più. Ma come si lavorava nelle loro redazioni nello stesso periodo, è una cosa a cui hanno dedicato ben pochi articoli.
Sul sito del Corriere si può trovare una foto degli anni Settanta che mostra un intero stanzone pieno di linotipisti al lavoro. Ma l’articolo in cui compare parla delle lotte per il controllo del potere e dell’informazione, e le linotype non le nomina neanche.
Chiaramente non hanno nulla a che vedere col meccanismo di scrittura degli articoli, ma erano necessarie per impaginarli. Gli articoli battuti a macchina dai giornalisti (o scritti a mano da qualche direttore) dovevano essere portati ai linotipisti, che li trascrivevano battendo sui tasti della linotype. La quale veniva impostata con un certo tipo di carattere e una certa larghezza di colonna. In un apposito magazzino in alto erano immagazzinate le matrici con le varie lettere, che si mettevano in fila a formare le parole mentre l’operatore digitava sulla tastiera. Per dividere le parole in sillabe decideva l’operatore, mentre la giustificazione del testo era automatica. Una colata di piombo fuso sulle matrici formava la riga di testo con le lettere in rilievo, che andava ad aggiungersi alle altre già digitate. Le quali dovevano essere portate poi sul banco di composizione per l’impaginazione vera e propria, con i titoli composti a mano.
Quando negli anni Ottanta si passò a metodi più moderni, fu necessario riorganizzare le redazioni. All’inizio sembrò che gli operatori dovessero imparare soltanto un nuovo sistema: quello della composizione a freddo (fotocomposizione) anziché a caldo. Ma poi l’informatica diede vita al desktop publishing e oggi gli articoli vengono composti direttamente dal personale giornalistico sul monitor dei computer. Tutti i posti di lavoro degli addetti alla linotype sono scomparsi. E non solo la tipografia non sta più nello stesso palazzo del quotidiano ma a centinaia di chilometri di distanza, ma spesso non ce n’è neanche bisogno, perché i lettori ricevono il giornale direttamente sul tablet.
Eppure un certo affetto per la linotype i giornalisti cresciuti in quell’epoca l’hanno conservato. Tanto che alcune redazioni ne hanno mantenuta almeno una, da tenere esposta.
Nella storica sede del Corriere della Sera di via Solferino dovrebbe essercene una, ma lo sappiamo solo perché gli studenti di una scolaresca milanese hanno pubblicato la foto nel 2016. Dicono che la linotype venne fatta venire dall’America dal direttore Albertini nel 1912. Non necessariamente ne hanno capito tutti i passaggi (c’è un riferimento al cartone che mi pare un po’ strano), ma almeno gli è rimasto impresso il concetto di caratteri mobili che scendono e vanno a comporre le frasi grazie al piombo.
La linotype del Corriere è appoggiata vicino ad una scala, senza particolari protezioni. Quella del Messaggero di Roma invece è stata inserita in una enorme teca di vetro nell’atrio. Talvolta la si vede nelle foto, quando ospiti famosi arrivano a farsi intervistare in redazione. La foto migliore che ho trovato è quella scattata durante la visita di Papa Francesco, pubblicata dal sito The Boston Pilot.
Un altro Messaggero, il Messaggero Veneto, ha recuperato una delle sue vecchie linotype e l’ha messa in mostra a gennaio dell’anno scorso. Su Youtube c’è un breve video di presentazione.
Anche il Corriere dello Sport doveva averne una in mostra, se non sbaglio, ma dal web non risulta.
Grandissima cura ha invece avuto il quotidiano di Torino, La Stampa, nel collocare una delle sue linotype nelle sale del museo che è stato allestito nei pressi della nuova redazione nel 2013. Illuminazione suggestiva, e intorno pannelli illustrativi e apparecchiature per l’impaginazione usate in epoche diverse.
La macchina suscita grande interesse, dice il progettista del museo nell’articolo. Fino al 1978 ce ne erano 37 in funzione per comporre l’intero giornale.
Anche la Gazzetta di Mantova ha un suo museo, rinnovato l’anno scorso. Ed espone una Linotype “Modello 31” a tre magazzini, come dice il pannello illustrativo alle sue spalle (la foto è pubblicata dal sito La Voce di New York).
La Gazzetta di Mantova vanta come anno di fondazione il 1664, quando il Ducato di Mantova era governato dai Gonzaga.
Su Wikipedia si può vedere com’era la testata del giornale nel 1882, un serif obliquo con un tocco di originalità sulla punta della t e con i tratti che toccavano la linea di base più spessi di quelli superiori. Puntino sulla i a quattro lati leggermente curvi.
E pensare che oggi il sito web del giornale ha una testata in Playbill all caps!
Il sito dell’Unione Sarda invece in un articolo di due anni fa ricordava le quattro linotype che dal 1926 permettevano di stampare sei pagine al giorno (e che si vedono nella foto d’epoca pubblicata sul sito, un po’ in bassa qualità).
Sul sito del Corriere si può trovare una foto degli anni Settanta che mostra un intero stanzone pieno di linotipisti al lavoro. Ma l’articolo in cui compare parla delle lotte per il controllo del potere e dell’informazione, e le linotype non le nomina neanche.
Chiaramente non hanno nulla a che vedere col meccanismo di scrittura degli articoli, ma erano necessarie per impaginarli. Gli articoli battuti a macchina dai giornalisti (o scritti a mano da qualche direttore) dovevano essere portati ai linotipisti, che li trascrivevano battendo sui tasti della linotype. La quale veniva impostata con un certo tipo di carattere e una certa larghezza di colonna. In un apposito magazzino in alto erano immagazzinate le matrici con le varie lettere, che si mettevano in fila a formare le parole mentre l’operatore digitava sulla tastiera. Per dividere le parole in sillabe decideva l’operatore, mentre la giustificazione del testo era automatica. Una colata di piombo fuso sulle matrici formava la riga di testo con le lettere in rilievo, che andava ad aggiungersi alle altre già digitate. Le quali dovevano essere portate poi sul banco di composizione per l’impaginazione vera e propria, con i titoli composti a mano.
Quando negli anni Ottanta si passò a metodi più moderni, fu necessario riorganizzare le redazioni. All’inizio sembrò che gli operatori dovessero imparare soltanto un nuovo sistema: quello della composizione a freddo (fotocomposizione) anziché a caldo. Ma poi l’informatica diede vita al desktop publishing e oggi gli articoli vengono composti direttamente dal personale giornalistico sul monitor dei computer. Tutti i posti di lavoro degli addetti alla linotype sono scomparsi. E non solo la tipografia non sta più nello stesso palazzo del quotidiano ma a centinaia di chilometri di distanza, ma spesso non ce n’è neanche bisogno, perché i lettori ricevono il giornale direttamente sul tablet.
Eppure un certo affetto per la linotype i giornalisti cresciuti in quell’epoca l’hanno conservato. Tanto che alcune redazioni ne hanno mantenuta almeno una, da tenere esposta.
Nella storica sede del Corriere della Sera di via Solferino dovrebbe essercene una, ma lo sappiamo solo perché gli studenti di una scolaresca milanese hanno pubblicato la foto nel 2016. Dicono che la linotype venne fatta venire dall’America dal direttore Albertini nel 1912. Non necessariamente ne hanno capito tutti i passaggi (c’è un riferimento al cartone che mi pare un po’ strano), ma almeno gli è rimasto impresso il concetto di caratteri mobili che scendono e vanno a comporre le frasi grazie al piombo.
La linotype del Corriere è appoggiata vicino ad una scala, senza particolari protezioni. Quella del Messaggero di Roma invece è stata inserita in una enorme teca di vetro nell’atrio. Talvolta la si vede nelle foto, quando ospiti famosi arrivano a farsi intervistare in redazione. La foto migliore che ho trovato è quella scattata durante la visita di Papa Francesco, pubblicata dal sito The Boston Pilot.
Un altro Messaggero, il Messaggero Veneto, ha recuperato una delle sue vecchie linotype e l’ha messa in mostra a gennaio dell’anno scorso. Su Youtube c’è un breve video di presentazione.
Anche il Corriere dello Sport doveva averne una in mostra, se non sbaglio, ma dal web non risulta.
Grandissima cura ha invece avuto il quotidiano di Torino, La Stampa, nel collocare una delle sue linotype nelle sale del museo che è stato allestito nei pressi della nuova redazione nel 2013. Illuminazione suggestiva, e intorno pannelli illustrativi e apparecchiature per l’impaginazione usate in epoche diverse.
La macchina suscita grande interesse, dice il progettista del museo nell’articolo. Fino al 1978 ce ne erano 37 in funzione per comporre l’intero giornale.
Anche la Gazzetta di Mantova ha un suo museo, rinnovato l’anno scorso. Ed espone una Linotype “Modello 31” a tre magazzini, come dice il pannello illustrativo alle sue spalle (la foto è pubblicata dal sito La Voce di New York).
La Gazzetta di Mantova vanta come anno di fondazione il 1664, quando il Ducato di Mantova era governato dai Gonzaga.
Su Wikipedia si può vedere com’era la testata del giornale nel 1882, un serif obliquo con un tocco di originalità sulla punta della t e con i tratti che toccavano la linea di base più spessi di quelli superiori. Puntino sulla i a quattro lati leggermente curvi.
E pensare che oggi il sito web del giornale ha una testata in Playbill all caps!
Il sito dell’Unione Sarda invece in un articolo di due anni fa ricordava le quattro linotype che dal 1926 permettevano di stampare sei pagine al giorno (e che si vedono nella foto d’epoca pubblicata sul sito, un po’ in bassa qualità).
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