Come impaginare la prefazione seicentesca alle profezie di Nostradamus

Nostradamus è uno dei più celebri scrittori di profezie della storia. Vissuto nel Cinquecento, è tuttora citato molto spesso sui mass media: solo due settimane fa Velvet Gossip titolava “Donald Trump, Nostradamus aveva predetto la sua vittoria alle elezioni 2020”, mentre ieri su TecnoAndroid uno dei titoli era: “Coronavirus: Nostradamus voleva avvertirci su ciò che avverrà”.

Talvolta sul web il suo ritratto viene montato davanti a due pagine del suo libro di profezie. L’immagine che serve per lo sfondo è quella di una traduzione seicentesca in lingua inglese, che si può vedere per intero su Wikipedia. Con la faccia di Nostradamus davanti fa il suo effetto, ma andando a guardarla nel dettaglio può avere qualche delusione, nel senso che apparentemente le lettere non hanno caratteristiche strane. Se uno si aspettava caratteri gotici o simboli esoterici o cose del genere sbagliava di grosso: i caratteri usati nelle due pagine di prefazione che si vedono nella foto sono leggibili, praticamente le stesse lettere che utilizziamo al giorno d’oggi.

Cercando meglio sul web si possono vedere delle edizioni cinquecentesce con caratteri molto più rudimentali, ma l’edizione seicentesca inglese, nonostante sia composta con caratteri molto rifiniti simili a quelli in uso ancora oggi, è comunque impaginata secondo convenzioni che sono state ormai abbandonate dalla tipografia moderna.

Il dettaglio che mi salta agli occhi per primo è l’uso della s lunga a partire dal titolo. Si tratta di una lettera che somiglia ad una f, ma senza il trattino orizzontale (c’è solo un accenno sul lato sinistro). La lettera veniva usata fino alla fine del Settecento al posto della s normale, ma solo quando questa doveva essere seguita da altre lettere. In pratica nella parola Nostradamus compaiono due s, ma la prima è lunga mentre la seconda è normale. Nei secoli successivi si diffuse l’usanza che in caso di due s consecutive la prima doveva essere lunga e la seconda corta. Qui invece vediamo nella seconda pagina che nella parola “impressions” entrambe le s sono lunghe (terzultima riga).

Un’altra cosa che notiamo è l’uso delle legature: visto che la s lunga, come la f, interferisce con la lettera successiva, ecco che le due potevano essere legate insieme. Nella parola nostradamus il tratto superiore della s si unisce con quello della t. Questo significava che il tipografo non doveva prendere le due lettere separatamente, ma direttamente il blocchetto metallico su cui erano incise entrambe le lettere unite. Nel testo vediamo che c’è un’altra legatura desueta: in terza riga notiamo la parola “nocturnal” dove la c e la t sono unite da un tratto curvo. In teoria quella legatura non è necessaria (e infatti oggi è caduta in disuso), ma si tratta di una tradizione cominciata nel medioevo, quando le due lettere erano più simili rispetto a quanto non lo siano ora per cui venivano tracciate con il tratto superiore in comune.

Il titolo è impaginato usando le convenzioni dell’epoca, che prevedevano di creare un certo equilibrio suddividendo una frase lunga in varie righe, alternando caratteri in dimensioni più grandi ad altri in dimensioni più piccole. La parola nella prima riga è scritta in caratteri piccoli, tutta in maiuscolo; la seconda riga è scritta in caratteri più grandi, sempre in maiuscolo, e molto spaziati tra di loro; in terza riga si torna alla stessa dimensione della prima, ma con la parola “Mr.” scritta in corsivo; poi viene il nome dell’autore, scritto utilizzando le maiuscole e le minuscole, nella dimensione maggiore in grado di occupare l’intera larghezza della pagina; si torna poi al maiuscolo piccolo delle righe dispari; la parola “Profezie” è tutta in maiuscolo, per la larghezza dell’intera pagina; infine segue la dedica, scritta a caratteri italici tranne il nome, che per essere messo in evidenza è scritto in caratteri romani. Tutto questo occupa circa mezza pagina, e viene spinto in basso da un fregio che si trova in alto. Più in alto ancora c’è una scritta in corsivo che fa il paio con quella che sta nella pagina successiva e che non fa parte né del titolo né del testo.

Tutti i caratteri sono romani o italici: mancano i sans serif che non verranno introdotti nell’uso comune fino all’Ottocento.

Il testo inizia con un capolettera che occupa ben cinque righe, ma tiene libera anche la sesta riga al di sotto, per evitare che le parole risultino troppo attaccate a quest’elemento: è una T outline ombreggiata inserita in un quadrato fatto di foglie stilizzate. Nel testo notiamo il frequente uso del corsivo, che all’epoca era un font diverso per cui il tipografo doveva attingere le lettere ad un’altra cassetta. Comunque la tonalità del testo nel suo complesso è la stessa in entrambi i casi, per cui la pagina ha un aspetto omogeneo, tanto più che si va a capo molto raramente: in pratica dall’inizio fino alla quintultima riga della seconda pagina è un solo capoverso, giustificato, cioè allineato a destra e sinistra, con tanto di sillabazione. Insomma, qualcosa che è molto moderno, si fa anche sui libri che si stampano oggi e nei documenti impaginati a computer.

La differenza è che all’epoca la giustificazione non era automatica, ma veniva fatta a mano, e ci si regolava diversamente per quanto riguarda la virgola. Oggi diamo per scontato che non bisogna inserire lo spazio prima della virgola, ma solo dopo. Il segno viene sempre attaccato alla parola che lo precede. All’epoca invece il tipografo si gestiva lo spazio come meglio credeva, a seconda delle esigenze. Così troviamo scritto sia “Mankind,concerning”, dove non c’è lo spazio né prima né dopo la virgola (quinta riga), sia “watchings, that”, con spazio solo dopo (terza riga), sia “son , hath”, con spazio sia prima che dopo (prima riga). Inoltre lo spazio può essere variabile, maggiore o minore a seconda dei casi. Il che sarebbe normale anche oggi: è così che i software giustificano il testo. Ma mentre un software sistema lo spazio in maniera omogenea per ogni riga, per cui in alcune righe lo spazio tra le parole è minore che in altre ma tutti gli spazi della stessa riga sono uguali, nel testo seicentesco notiamo che nella stessa riga talvolta lo spazio è maggiore, talvolta è minore. Nella penultima riga della prima pagina c’è scritto “thy weak understanding”, dove lo spazio dopo la parola “weak” è maggiore di quello che la precede. Oppure troviamo scritto due righe più sopra “few , but”, con più spazio dopo la virgola che prima. Per non parlare dello spazio che si trova a centro pagina dopo la parola “World”, che si nota da lontano come un buco che non ci dovrebbe essere.

Infine un’usanza strana era quella che era in vigore per passare da una pagina all’altra. Per noi è normale pensare che dopo l’ultima parola dell’ultima riga di una pagina bisogna passare alla prima della pagina successiva. All’epoca no. Dopo l’ultima parola dell’ultima riga, la parola successiva si trovava al di sotto. Occupava una riga a sé, da sola, ma era allineata a destra. Così in fondo alla prima pagina troviamo che dopo la scritta “what might” la scritta “occults” è aggunta in corsivo al di sotto della parola “might”. Nella pagina successiva la parola “voluntary” è spezzata: viene sillabata in “volun-” e “tary” che è scritto al disotto, sempre in caratteri romani.

Insomma, dettagli secondari che pure rendono necessario un certo impegno se vogliono essere resi in digitale. Nei word processor com’è ovvio non c’è nessuna funzione automatica che impagini un testo usando una riga a sé per l’ultima parola di una pagina. Per quanto riguarda il titolo, chiaramente è molto più facile modificare a piacimento la dimensione e lo stile di un testo di quanto non lo fosse all’epoca, quando ogni dimensione o stile era un font diverso e andava pescato in una cassetta di caratteri diversa. Ma non basta cambiare dimensione e stile e poi andare a capo, perché il programma di videoscrittura calcola l’interlinea sulla base della dimensione del testo presente. Premendo invio dopo un testo piccolo il programma va a capo di poco, dopo un testo grande sposta il cursore in basso molto di più. Il risultato è che il testo piccolo va a finire appiccicato al testo grande che segue. La cosa si può risolvere cliccando col destro, poi su Paragrafo e impostando l’interlinea fissa, dopo avere selezionato l’intero testo delle righe più grandi e più piccole, in maniera tale da distanziarle una dall’altra in maniera uniforme.

Dice Wikipedia che una delle maggiori fonti per le profezie di Nostradamus fu il Mirabilis Liber del 1522, un testo che nelle prime sei edizioni ebbe molto successo, che “non perdurò nel tempo plausibilmente perché era scritto in latino con caratteri gotici e con abbreviazioni difficili da capire” (Nostradamus invece scriveva in francese). Esistono le foto sul web di alcune di queste edizioni, è lì c’è un’impaginazion veramente impensabile, che merita un post a parte.

Per tornare alle pagine della traduzione inglese di Nostradamus, notiamo che c’è qualche problema che riguarda la distanza del testo dal bordo. Notiamo, specie nella seconda pagina, che c’è molto bianco al disotto del testo, mentre la riga di intestazione in alto è quasi attaccata al margine superiore della pagina, e per giunta è un po’ inclinata in discesa. Può anche darsi che queste distanze non siano quelle che erano state immaginate in fase di composizione: chi ha visto quanta cura ci vuole per comporre e fissare il testo in una pressa da stampa e per assicurarsi che i fogli siano inseriti tutti nella stessa posizione può benissimo immaginare che, così come il testo è finito fuori squadra, anche la sua posizione sia venuta fuori leggermente decentrata rispetto alle intenzioni iniziali.

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