Font di sistema a 8 e 16 bits
In tutti i casi si tratta di pixel font, o bitmap font: ogni lettera è composta di tanti quadrati inseriti in una griglia ben precisa; venivano salvati in memoria in maniera tale che ognuno di questi quadrati rappresentasse un bit di memoria che poteva essere impostato a 1 o a 0.
A differenza dei bitmap per uso tipografico, dove la griglia era larga anche un centinaio di unità, nei computer dell’epoca si parla di griglie più piccole di 8x8. Nella misura bisognava includere anche lo spazio dalla lettera successiva o da quella inferiore, col risultato che si avevano 6 o 7 pixel utili nelle varie dimensioni. (Nel Commodore la griglia di cui tenere conto era di 8x8, otto file di otto bit; la forma di ogni lettera dunque occupava solo otto byte di memoria; l’intero set di 256 lettere e simboli poteva essere di due kilobyte, non un bit in più a causa di come era configurato l’hardware).
Trattandosi di limiti molto stretti, uno potrebbe pensare che tutti quanti i font fossero pressoché uguali. Invece non era affatto così: in alcuni i tratti sono molto sottili, in altri sono più spessi (ad esempio nel Commodore 64, progettato per funzionare non con monitor specificamente progettati, ma con il televisore di casa, a tubo catodico, con bassa qualità e forte sfarfallio).
A parte questo, il blog si mette ad elencare tutti i dettagli caratteristici di ogni singolo font. E lì c’è da rifarsi gli occhi, anche perché ogni scheda contiene anche la foto dell’intero set.
E così possiamo sbizzarrirci a notare la mescolanza tra lettere serif e sans che venivano inserite nello stesso font, cercando di ovviare al problema di avere lettere monospace (dove quelle strette andavano allargate ma quelle larghe dovevano per forza stringersi più che potevano), alternanza tra tratti troppo spessi o troppo sottili, asimmetrie inspiegabili o sgradevoli, soluzioni bizzarre per adattare lettere complesse ad uno schema troppo limitato.
La Q del Commodore 64 ad esempio era più bassa del normale, ma allineata in alto, in maniera tale da avere una coda discendente senza tuttavia invadere lo spazio discendente, riservato alle minuscole. Altri font che avevano un peso simile hanno risolto il problema in maniera diversa: L’Atari 400/800 del 1979 ha una Q che tocca terra e che ha una coda che è evidenziata da pixel mancanti che interrompono quella che dovrebbe essere la O sottostante. Ancora di più fa l’Acorn Bbc Micro, anno 1981, dove l’intera coda è circondata da pixel mancanti, in maniera tale da stagliarsi al di sopra della O sottostante, soluzione riprese poi anche da Amstrad Cpc nel 1984.
Talvolta il punto esclamativo è di forma rettangolare, altre volte è bombato.
Nei sistemi più rudimentali vediamo lo 0 barrato, una chiocciola irriconoscibile, una A con vetta a punta e fianchi paralleli. Si trovano poi A a fianchi obliqui, oppure a fianchi solo paralleli e a vetta piatta. Si va dalle W con due fianchi paralleli e solo un accenno di puntina al centro, alle W a tre aste parallele come quelle dell’Apple Machintosh del 1984.
Insomma, si può passare un bel po’ di tempo su questi dettagli. Dove possibile c’è anche il nome della persona che ha disegnato il set, o della società che se ne è occupata. L’autore del blog è appassionato di tipografia. Ha scritto vari altri post che riguardano il settore: ad esempio ha fotografato tutti i dettagli tipografici che ha potuto osservare nella sede della Microsoft che ha visitato, mentre ci lavorava, oppure tutte le risorse riguardanti la tipografia che è riuscito a trovare sul web: non soltanto software per disegnare, ma anche siti che permettono di riconoscere i font, di sceglierli, o che propongono quiz che insegnano a riconoscerli. C’è pure il link a “cheese or fonts”, un quiz che chiede di distinguere i nomi dei formaggi da quelli dei caratteri tipografici.
Commenti
Posta un commento