Le emoji in Unicode dal 2010. O no?

Secondo la pagina di Wikipedia in inglese dedicata a Unicode, le emoji sono comparse a partire dalla versione 6.0 di Unicode dell’ottobre 2010.

La parola emoji deriva dal giapponese e+moji, ossia immagine+carattere, ma è di uso comune anche in occidente perché ricorda, casualmente dicono, la parola emozione. In effetti alcune delle emoji rappresentano espressioni del viso che servono per comunicare delle emozioni, ma molte altre rappresentano oggetti di uso comune, bandiere, animali, segnali di pericolo e quant’altro.

Unicode è lo standard che serve per assegnare ad ogni glifo un codice ben preciso, per permettere la comunicazione di testi su dispositivi che usano software diversi e lingue diverse.

La versione 1.0 di Unicode risale all’ottobre del 1991. Fino a quel momento erano previste codifiche diverse a seconda dell’alfabeto usato su ciascun computer, per cui ad ogni sequenza di bit corrispondeva una lettera dell’alfabeto ben precisa. Un po’ come funziona per i tasti sulle tastiere: se scrivo in italiano, ad ogni tasto è associata una lettera italiana. Ma chi scrive in greco ha bisogno che a ogni tasto sia associata una lettera greca.

Così, coi sistemi precedenti, ogni documento doveva specificare la codifica, per fare in modo che i bit venissero associati alle corrispondenti lettere: se il documento era scritto in italiano, ad ogni sequenza di bit veniva associata una lettera latina, mentre se era scritto in russo, a quelle stesse sequenze venivano associate le lettere dell’alfabeto cirillico.

Il problema era che con questo sistema era impossibile avere documenti in cui convivessero lettere di alfabeti diversi, visto che la stessa sequenza di bit poteva essere interpretata in vari modi diversi a seconda del contesto.

Per questo venne ideato il sistema unicode: ogni lettera di qualsiasi alfabeto riceve un codice univoco, in maniera tale da non creare malintesi. La prima versione di Unicode assegnava i codici a tutte le lettere latine, arabe, cirilliche, devanagari, greche, ebraiche, tailandesi, tibetane, georgiane eccetera. L’anno successivo furono pronti gli ideogrammi cinesi (quasi 21 mila).

A cadenza pressoché annuale, a Unicode sono stati aggiunti tutti gli altri alfabeti conosciuti, da quelli esistenti a quelli dei popoli ormai estinti. Ma oltre alle lettere dell’alfabeto fanno parte di unicode anche tutti i principali caratteri tipografici, note musicali, croci, punti, frecce, segni zodiacali, fasi lunari e chi più ne ha più ne metta. E siccome le aziende si stavano dando da fare per inserire immagini all’interno dei testi sotto forma di caratteri tipografici, ecco che nel 2010 appunto sono arrivate le emoji.

Il concetto è collegato con quello di emoticons, risalente agli anni 80, quando si cominciarono ad assemblare delle faccine usando i segni tipografici esistenti nei computer: due punti e chiusa parentesi per simulare una faccina che ride (ruotata di 90 gradi).

Grazie allo sviluppo dei software non è necessario avere una tastiera enorme per l’inserimento di tutti questi simboli: basta cliccare su un pulsante e compare una tastiera virtuale sullo schermo sulla quale scegliere il simbolo desiderato (senza contare che ogni simbolo si può richiamare facilmente anche inserendo sequenze di lettere in un’apposita casella, se il software lo permette).

Oggi quello delle emoji è diventato un vero e proprio universo: ogni azienda sviluppa le sue, uniformandosi ai dettami Unicode nei contesti in cui si vuole garantire la compatibilità con tutti gli altri sistemi (ma esiste anche la possibilità di aggiungerne di diverse, in base alle esigenze di ciascuna azienda).

Tramite le emoji vengono combattute delle battaglie culturali: una di queste riguarda le differenze razziali: invece di avere il colore della pelle giallo per tutti, su alcune piattaforme è stato elaborato il sistema per regolare la tonalità della pelle in base ad un numero limitato di scelte disponibili. Anche le questioni di genere influiscono notevolmente: inizialmente molte delle emoji erano state pensate in due versioni, maschile e femminile, per via della parità di genere (anche per Babbo Natale). Ora alcune piattaforme hanno già attivato anche la terza versione con caratteristiche intermedie (non binaria, come si dice).

Altre emoji sono entrate a far parte del dibattito sul politically correct: la pistola automatica, poi diventata revolver, è stata infine trasformata in un innocuo giocattolo ad acqua. Pugnale e bomba sono rimasti così come sono. La manina col dito medio alzato pure ha creato qualche problema in giro per il mondo, così come alcuni innocui frutti e ortaggi associati dagli utenti a significati volgari.

La pagina di Wikipedia dedicata alle emoji in inglese è lunga e articolata, e contiene anche una tabella col numero totale di emoji esistenti e l’anno in cui sono state introdotte. La cosa strana è che le prime 81 risalgono alla versione 1.0 del 1991, a cui se ne aggiungono altre di anno in anno (sempre numeri a due cifre, raramente a tre, dal 2009 in poi).

Una nota sotto la tabella spiega: “Le emoji sono state definite per la prima volta in Unicode 6.0. I caratteri precedenti al 6.0 sono stati definiti emoji solo dal 6.0 o successivamente”.

Ok. Ma quali sono queste emoji preistoriche?

Su Emojipedia è presente una lista che comprende molti più simboli degli 86 dichiarati da Wikipedia come parte di Unicode 1.0; ma il sito non parla mai di 1.0, partendo direttamente da 1.1, di cui Wikipedia non dice niente.

I primi simboli che compaiono sono la faccina sorridente e quella triste (che derivano dalle emoticon con le parentesi), il teschio dei pirati, il cuore, il segno di vittoria con le dita, l’indice che punta in alto. Alcuni simboli metereologici, i semi delle carte francesi. Pochi simboli da ufficio (telefono, posta, forbici, tastiera, penna), frecce varie. I simboli delle principali religioni, dei segni zodiacali, dell’uomo e della donna. Il Coyright, il marchio registrato e il TradeMark.

Seguono tutta una serie di altri simboli che in effetti non sono considerate emoji: i simboli dei pianeti o dei pezzi degli scacchi, la falce e martello, le note musicali, i trigrammi taoisti, le fasi lunari.

Nei normali programmi di chat e social network a molti di questi simboli non corrisponde nessun pulsante. Possono essere inseriti come caratteri, se copiati e incollati, e se il font installato li supporta.

C’è qualche eccezione: in Whatsapp mi pare che non c’è il simbolo maschile e quello femminile sul tabellone, ma se si incolla il carattere corrispondente nella casella col testo da inviare, viene sostituito dall’emoji corrispondente.

Alcune emoji derivano derivano dai simboli inseriti in un popolare font degli anni Novanta, installato di default coi software Microsoft: Webdings. Al suo interno si trovano treni, case, paesaggi, simboli atmosferici o da ufficio, macchinine. Chiaramente quei disegni non facevano parte di nessuno standard, anzi, occupavano le posizioni usate normalmente dalle lettere dell’alfabeto e dai segni di interpunzione. Però visto che la stragrande maggioranza dei pc funzionava con software Microsoft potevano talvolta essere usati nelle mail o comunque nelle comunicazioni digitali tra un utente e l’altro (oltre che essere inseriti in documenti cartacei, anche se non è la stessa cosa).

Webdings esiste ancora, come esistono tanti altri font di dingbat, ma visto che nei programmi di chat non possono essere usati, se non dopo aver convertito un simbolo in immagine, hanno un impatto molto basso su quel tipo di comunicazioni (dovendo inviare un’immagine, molto meglio inviare una vera foto o un meme).

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