Macchine da scrivere giapponesi e cinesi

Tempo fa avevo visto un filmato di una macchina da scrivere giapponese elettrica. Adesso invece ho trovato su Youtube un video, caricato l’anno scorso, che mostra una macchina da scrivere Toshiba degli anni Quaranta. La macchina è interamente manuale, non fa uso di elettricità. C’è un solo tasto che bisogna premere per battere sul foglio, e un solo martelletto che va a picchiare sui caratteri in rilievo. Il pannello centrale è composto da una specie di rullo formato da tante bacchette, forse di legno, orizzontali, dove compaiono le lettere che uno vuole digitare. Una freccia in metallo punta sul carattere selezionato. Con una manopola sulla sinistra l’operatore poteva scorrere questo rullo fino ad arrivare alla riga desiderata, e contemporaneamente spostarsi verso destra o sinistra per arrivare fino alla lettera in questione. A questo punto si batteva sull’apposito tasto. Il martelletto avanzava verso il foglio, e qualcosa si alzava, andandosi a frapporre fra martelletto e foglio. Potrebbe essere una delle bacchette che compongono il rullo, ma quale? Il filmato non inquadra nel dettaglio il meccanismo, non c’è nessuna voce, nessuno schema, nessuna didascalia. Ad alzarsi comunque è un’intera griglia di caratteri, composta di varie righe.

In realtà la tastiera è composta anche di un altro tasto, ma non si sa a che cosa serve (lo spazio?).

Forse la macchina era in grado di stampare anche le lettere latine, ma questo dettaglio non compare nel filmato (a parte il fatto che c’è un pangramma già scritto sul foglio in mezzo alle parole in giapponese).

Il filmato è stato realizzato da un collezionista di macchine da scrivere di New Orleans.

Questo modello, insieme ad altri, è esposto all’aeroporto di San Francisco, come si vede in un altro filmato presente su Youtube.

Al giorno d’oggi esistono sistemi che permettono di inserire rapidamente i caratteri cinesi usando computer o cellulare. Così rapidi, che la mente umana non fa in tempo a vedere il carattere che si sta digitando per cui è sorto un nuovo problema: se dei ragazzi devono tracciare sul foglio uno di questi caratteri senza averlo sott’occhio, non ricordano più come si fa a tracciarlo!

Lo ha spiegato un certo Tom Mullaney in una conferenza sulle macchine da scrivere cinesi, registrata nel 2019 e disponibile per intero su Youtube (in inglese).

Uno dei sistemi in uso sui computer cinesi prevede di digitare delle lettere latine su una tastiera come quelle che si usano nel resto del mondo. Il software seleziona alcuni suggerimenti alla pressione della prima lettera. Digitando una seconda lettera la lista dei suggerimenti cambia, e così via, fino a quando l’utente non sceglie il numero che rappresenta il suggerimento scelto. La sequenza dei tasti digitati non ha nulla a che vedere col testo che uno intende scrivere, e scompare appena la parola è stata inserita nel documento. Non è necessario completare la parola (come del resto avviene anche su parecchi dispositivi che si usano in Occidente), e lo stesso avviene in quei software in cui bisogna cominciare a disegnare l’ideogramma sullo schermo: dopo i primi segni, il programma suggerisce il carattere completo, quindi terminare il disegno non è necessario.

La conferenza è molto interessante, purtroppo si basa solo un fotografie e non fa mai vedere le macchine da scrivere orientali in funzione. Inizialmente, dice il conferenziere, l’idea di realizzare una macchina per la scrittura cinese era stata accantonata da tutti i fabbricanti (viene citata anche l’italiana Olivetti): era impensabile una tastiera con mille tasti collegati con lo stesso meccanismo cinematico che era alla base delle tastiere occidentali. E se per alcuni alfabeti, come quello arabo, era possibile con qualche adattamento ottenere un risultato accettabile, o se alcuni alfabeti potevano essere modificati, quello cinese pareva un caso disperato, tanto da provocare vignette su vignette che raffiguravano situazioni assurde (e che di questi tempi sarebbero considerate ultra-razziste): tastiere così grandi da avere corridoi per muoversi tra i tasti, oppure gruppi di cinesi che si suddividono i tasti mentre un tale col megafono grida di volta in volta quale tasto bisogna premere, oppure una tastiera lunga quanto la muraglia cinese sulla quale il dattilografo doveva spostarsi usando il risciò. 

La soluzione vincente inizialmente fu quella di rinunciare alla tastiera: un solo tasto serviva a dare l’input per battere sul foglio, e l’intero pannello con i caratteri doveva essere spostato per mettersi nella posizione in cui il singolo carattere poteva essere afferrato da un apposito meccanismo e battuto poi sul foglio. Si trattava di caratteri non collegati al supporto: rovesciando la macchina sarebbero caduti tutti a terra.

La macchina non conteneva tutti i caratteri possibili, ma solo i duemila che potevano servire a digitare gran parte delle parole di uso comune. Per sceglierli venne realizzata a mano una statistica dei caratteri maggiormente presenti nei testi effettivamente stampati. Con questi duemila segni era possibile comporre circa il 90% delle parole in uso.

Inizialmente i simboli erano disposti in ordine da dizionario. Il risultato era che spesso ogni simbolo non poteva essere combinato con nessuno dei suoi vicini. Per formare le parole, la persona che scriveva doveva spostarsi da una parte all’altra del tabellone, perdendo tempo. Ai tempi di Mao, la posizione dei caratteri venne riformata, facendo in modo che ciascuno si trovasse vicino a quelli che gli potevano servire per formare delle parole di uso comune. Minore era il tragitto che l’operatore doveva percorrere col cursore durante la battitura, maggiore era la velocità con cui era in grado di scrivere il testo.

Incredibile a dirsi, il sistema che si usa oggi, basato sui suggerimenti, affonda le sue radici fino al 1947, quando venne inventata una macchina da scrivere dotata di tastiera, dove alla pressione del primo tasto non succedeva apparentemente nulla, alla pressione del secondo tasto comparivano dei suggerimenti su un apposito display brevettato per l’occasione, e solo con la terza pressione su un tasto il simbolo veniva battuto sul foglio.

Nel corso della conferenza viene mostrata anche qualche foto dell’interno della macchina, su cui c’erano vari rulli ottagonali collegati fra di loro da catene tipo quelle da bicicletta.

Un professore del Mit in seguito riuscì a progettare una macchina computerizzata per la fotocomposizione di un testo in cinese, con una tastiera dotata di un numero limitatissimo di tasti. Lui non parlava cinese ma era esperto di informatica. Collaborando con chi la lingua la conosceva, si rese conto sia del fatto che c’era un ordine ben preciso in cui venivano tracciati tutti i segni dei caratteri cinesi, sia che alcuni segni erano superflui, nel senso che il computer poteva capire di quale segno si trattava prima ancora che l’operatore avesse finito di aggiungere informazioni. Così elaborò dei sistemi di completamento automatico, decenni prima che questi entrassero nell’uso comune nei pc usati in Occidente.

Al giorno d’oggi un computer è in grado di risolvere in automatico problemi che nessuna macchina da scrivere era in grado di affrontare: la forma delle lettere può cambiare a seconda delle lettere precedenti e seguenti, come avviene nell’arabo; ci possono essere legature dinamiche, come nel tamil (ma qualcuna è rimasta anche in italiano); possono essere sistemati segni diacritici memorizzati a parte rispetto alla lettera (thai); le lettere possono essere riordinate o separate; infine si possono gestire diversamente le scritture che procedono da sinistra a destra da quelle che procedono nel verso opposto, come l’ebraico.

Nei secoli passati, la forma dei caratteri cambiava informalmente nel corso del tempo. Dal diverso modo in cui si disegnavano le maiuscole sono nate le minuscole. Disegnando i caratteri cinesi in maniera diversa sono nati quelli giapponesi. Ma con i sistemi informatizzati, non rimane traccia del modo in cui si evolve la scrittura cinese: il software riconosce la lettera che uno sta disegnando, e inserisce nel testo la sua forma ideale. Quindi l’evoluzione risulta bloccata, da quel punto di vista. Si potrebbe dire la stessa cosa per chi usa l’alfabeto latino su un computer, ma nel nostro caso si tratta almeno di un sistema wysiwyg: disegni una A per ottenere una A. Anche se l’autocompletamento spinto ad immaginare l’intera parola o l’intera frase sulla base delle prime lettere comunque qualche influsso notevole sul cervello potrebbe avercelo. Il conferenziere cita ad esempio i suggerimenti della ricerca di Google, personalizzati non soltanto sulla base delle nostre ricerche precedenti, ma anche sulla base di quelle degli altri utenti, o meglio, di quelle che Google ritiene rilevanti.

Ai tempi di Mao era stato fatto un tentativo di semplificare i caratteri nella forma, al fine di scriverli più rapidamente. Quando poi i protagonisti di quell’epoca videro i metodi di scrittura computerizzati, dissero che con quei sistemi non ci avrebbero neanche pensato a dare il via a un progetto del genere, visto appunto che le lettere non devono più essere disegnate nella loro complessità, ma semplicemente scelte da un breve elenco.

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