Stereotipia nei quotidiani degli anni Settanta
Sia la forma delle lettere che l’halftone delle foto sono incavati in profondità nel supporto. Secondo l’autore del post il metallo fuso avrebbe coperto la superficie per formare la lastra. Il blog linkava anche un video del 1950 che spiegava come funzionava il processo, ma il link non è più disponibile (il post è di 11 anni fa). Restano soltanto alcuni fotogrammi.
La tecnica, in italiano, si chiamava stereotipìa. Il Sabatini-Coletti la definisce così: “Tecnica di riporto di una composizione mobile in un blocco unico di piombo attraverso l’impressione della pagina su un cartone speciale”. Il primo uso del termine è segnalato nel 1829.
Dire “blocco unico di piombo” può dare un’immagine fuorviante, a chi non sa di cosa si sta parlando. Praticamente nelle rotative dei quotidiani testi e immagini vengono impressi sulla carta tramite un cilindro rotante. Testi e foto devono apparire in rilievo al disopra di questo cilindro. Come si può ottenere un effetto del genere? In origine la tecnica inventata da Gutenberg nel Quattrocento prevedeva di assemblare su una superficie piana dei caratteri mobili, separati uno dall’altro. Vennero inventate in seguito delle macchine, le linotype, nelle quali bastava digitare sulla tastiera perché in automatico venissero fuse e giustificate linee intere di testo (line-of-type, da cui il nome). Anche qui era necessaria una superficie piana e il testo era composto di tanti pezzi separati. Come riportare il tutto su un cilindro unico?
Ecco dove si inserisce la tecnica della stereotipia. Le linee di testo e le immagini in rilievo (ottenute con la tecnica dell’halftone) non venivano utilizzate nella stampa del prodotto finito, ma per imprimere la loro forma in un rettangolo di un cartone speciale sui cui il tutto restava impresso fin nei minimi dettagli. Su questa matrice in cartone si poteva vedere la pagina che poi sarebbe stata stampata, senza inchiostro e non ribaltata. A partire da questa matrice si otteneva poi la lastra metallica di forma curva (con testo e immagini ribaltate), che sarebbe stata montata all’interno della rotativa sui cilindri necessari alla stampa.
Un bel filmato d’epoca che mostra l’intero meccanismo è stato caricato su Youtube (in inglese). Non se ne conosce l’anno, si dice genericamente anni Settanta. Alcune delle tecniche mostrate erano ancora utilizzate nella seconda metà degli anni Ottanta, dice la persona che lo ha caricato. Tra l’altro in quel filmato si vedono delle tecnologie molto più evolute di quello che uno si aspetterebbe. Perfino per gli anni Ottanta si parla dell’uso di linotype nei quotidiani, ma il meccanismo che si vede qui è già molto più evoluto rispetto a quello delle macchine che si possono ammirare esposte nei musei.
Il testo degli articoli veniva mandato al reparto composizione, dove non cerano né linotype né piombo fuso, ma delle speciali macchine da scrivere che lo memorizzavano su una striscia di nastro perforato. La giustificazione del testo e perfino la sillabazione venivano affidate ad un particolare macchinario prodotto dalla Ibm (c’è scritto “1130” sul pannello). La linotype entrava in scena subito dopo, ma non c’era nessun operatore a manovrarla: basta inserire il nastro perforato e i tasti sulla tastiera si battevano in automatico.
Nel filmato si parla anche della tecnica della fotocomposizione, che permette di usare gli stessi caratteri in varie dimensioni diverse grazie al principio su cui si basa la lente di ingrandimento.
All’ottavo minuto entra in scena la stereotipia.
Il testo preparato con i caratteri in rilievo veniva impresso sul cartone facendolo passare sotto una pressa. Veniva curvato e inserito in una macchina nella quale veniva poi fusa la lastra, che veniva rifinita e trasferita alle rotative grazie a nastri trasportatori.
Il documentario dice che le lastre del giorno prima sarebbero state fuse nuovamente. Wikipedia in inglese dice che gli stereotipi potevano essere conservati a lungo nelle case editrici nelle quali poteva essere necessaria una ristampa a distanza di tempo. In caso contrario, ci sarebbe stato bisogno di comporre da capo l’intero testo.
La stereotipia facilitava anche la stampa in syndacation, ossia quella in cui una redazione preparava delle pagine che sarebbero state inserite in diversi quotidiani locali.
Secondo Wikipedia lo stereotipo veniva chiamato flong. Nel documentario si parla di mat, riferendosi al particolare processo utilizzato in questo caso: secondo Wikipedia sarebbe diminutivo di “dry matrix process”, quello appunto che prevede l’uso di una pressa idraulica per creare la matrice e che dal 1946 era lo standard in tutte le redazioni dei giornali americani.
Il documentario mostra che negli anni Settanta stampare un giornale era un’attività industriale molto complessa: non soltanto per quanto riguarda le rotative (è facile immaginarlo, ed è così anche oggi) ma anche per quanto riguarda le fasi intermedie. Le lastre andavano trattate e messe a bagno con delle sostanze chimiche, la chimica c’entrava qualcosa con lo sviluppo delle pellicole con le foto e coi trattamenti necessari per trasformarle in cliché (e c'erano già apparecchi che eseguivano alcune di queste operazioni in automatico); serviva parecchio personale per passare gli articoli su nastro perforato, poi passare da nastro perforato a piombo, e suddividere i testi in colonne e aggiungerci i titoli (oggi è lo staff giornalistico che sistema il testo nella pagina sul monitor del computer, all’epoca invece preparava le istruzioni per i tecnici del reparto composizione). Per passare i materiali da un reparto all’altro non bisognava spostarsi fisicamente: erano previsti dei tubi attraverso i quali potevano scendere i messaggi, o dei nastri trasportatori, anche solo per riportare indietro le bozze stampate. Molti macchinari erano elettrici, come per esempio i tirabozze.
Il documentario mostra un mondo che oggi è completamente scomparso, e di cui i più non ne sanno nulla; neanche fra quelli che quell’epoca l’hanno vissuta ma magari in una redazione non ci hanno mai messo piede.
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