I caratteri in metallo più piccoli del mondo?

Al giorno d’oggi il problema della dimensione dei caratteri tipografici non si pone: sono scalabili quindi possono essere usati da chiunque sia in grande che in piccolo. Ovviamente un font pensato per i cartelloni autostradali deve avere delle caratteristiche diverse rispetto a quelli pensati per le quotazioni di borsa su un quotidiano di carta, ma dal punto di vista del disegnatore non si richiede di acquisire abilità tecniche particolari, visto che in entrambi i casi disegna sul monitor, con la possibilità di ingrandire o rimpicciolire a piacimento.

Il discorso era diverso quando c’erano i caratteri mobili in metallo, e magari non erano ancora stati inventati i pantografi. In quel caso realizzare un carattere minuscolo era un’impresa: serviva una mano ferma, una buona vista, una lente di ingrandimento, e nonostante questo oltre un certo limite non ci si poteva spingere.

Prima che venisse stabilita la misura del punto tipografico, ogni dimensione aveva un suo nome, che variava a seconda dei Paesi. In inglese c’era la pica, che corrisponde ai nostri 12 punti, il long primer, che corrisponde a 10, il brevier, che sarebbero 8, e così via. In francese queste stesse grandezze si chiamavano St.Augustien, philosopie e gaillarde, o, in altre epoche cicero, petit romaine e petit texte.

Esisteva anche una terminologia italiana, che però è caduta nel dimenticatoio: lettera corrispondeva a pica, garamone stava per long primer, e testino era il brevier. (Forse. Le fonti che ne parlano sono rarissime, e per giunta in Stati diversi si usavano unità di misura diverse, quindi le corrispondenze tra i vari nomi sono approssimate. Proprio per evitare malintesi tra diverse nazioni e diverse fonderie è stato necessario inventare il punto tipografico).

Su Wikipedia in italiano non è arrivato niente di tutto questo, mentre su quella in inglese ci sono sia i nomi americani e britannici, sia quelli francesi tedeschi e olandesi, sia quelli cinesi (gli italiani no).

La terminologia scende fino alla dimensione di un punto tipografico, ossia 0,353 millimetri, che veniva chiamato american in America, Achtelpetit in Germania e achtste petit in Olanda.

Mi pare di avere letto da qualche parte che all’epoca dei caratteri metallici questa dimensione esisteva soltanto in teoria, ma non veniva realizzata concretamente.

I nomi nella terminologia britannica si fermano ai 3 punti, col minikin. I francesi si spingevano fino a 2 e mezzo, col microscopique. La terminologia cinese non scendeva al disotto dei 5 punti, col ba, che vuol dire otto (l’uno era da 26 punti ossia circa nove millimetri, gli altri a scendere si chiamavano due, tre, quattro... a intervalli irregolari).

C’è da dire che caratteri troppo piccoli rappresentavano una sfida anche in fase di composizione. Le linotype e le monotype non si spingevano sotto una certa dimensione, e questo significava che per impaginare un testo bisognava a mano prendere una lettera per volta, possibilmente con delle pinzette, e allinearle e fissarle sulla stessa riga. Probabilmente si trattava anche di oggetti più delicati rispetto a quelli di dimensioni normali, per cui era più difficile ottenere una stampa di qualità e in grande quantità.

Comunque sul sito Typography.com è stato pubblicato uno specimen del 1785 della fonderia di John Fry e figli, che presenta “the Smallest Letter in the World”. La dimensione è chiamata diamond, e corrisponde agli attuali 4 punti.

Anche se la foto non è in qualità eccezionale, si intuisce lo spazio bianco anche all’interno di quasi tutte le a e molte delle e o delle s corte. Una cosa non scontata, almeno per chi ha visto i quotidiani stampati nel secolo successivo e oltre.

Chissà le altre fonderie come stavano messe.

Il famoso specimen di Caslon, quello che si può vedere su Wikipedia nella pagina dedicata all’incisore, presentava al massimo il nompareil e il pearl, rispettivamente sei e cinque dei nostri punti tipografici.

Al giorno d’oggi in linea teorica si può stampare a qualunque dimensione, ma esistono comunque delle limitazioni. Prima di tutto i software prevedono una grandezza minima oltre la quale non possono andare. OpenOffice Writer si ferma a 2, quindi non consente neanche di provare dimensioni minori. Poi c’è la qualità della stampante. Con altri software si può anche scendere a uno, magari, ma il risultato sarà molto confuso, illeggibile e impresentabile. Mentre invece con strumenti professionali vengono fuori lettere in quelle dimensioni che se ingrandite sembrano nitide quasi come se fossero stampate in corpo 12 (su patenti, carte d’identità, banconote le scritte microscopiche servono a rendere più difficile la falsificazione). Il terzo ostacolo è costituito dal font: stampare in Onyx corpo 1 sarebbe una pazzia, visto che è composto di lettere con aste spesse, molto contrasto e poco spazio bianco. Una scritta realizzata col font sbagliato rischia di essere illeggibile o quasi, mentre con un font più adatto, nella stessa dimensione, può venire qualche risultato accettabile.

Tant’è vero che chi ha bisogno di realizzare scritte molto piccole, come le quotazioni di borsa sui giornali, elenchi telefonici cartacei, o talvolta foglietti dei medicinali, deve procurarsi dei font più adatti, nei quali non soltanto ci deve essere spazio tra le aste e gli spessori devono essere ottimali per facilitare la lettura, ma vengono aggiunti anche degli accorgimenti per correggere gli effetti dell’inchiostro in piccole dimensioni. Visto che l’inchiostro tende ad accumularsi negli angoli distorcendo la forma che era stata pensata all’inizio, i caratteri progettati per le piccole dimensioni oggi vengono alterati realizzando ink-traps, ossia degli spicchi mancanti in prossimità degli angoli e delle giunzioni tra aste diverse. L’inchiostro in eccesso si va ad accumulare in queste fessure, ripristinando quindi la forma della lettera che era stata pensata in origine. 

Questa tecnica venne messa a punto nel Novecento, se non sbaglio. Chissà nel settecento con che spirito gli incisori affrontavano il problema.

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