L’indovinello veronese

L’Indovinello Veronese compare sui libri di letteratura come il più antico esempio di lingua italiana della storia. In effetti la faccenda è un po’ controversa, perché si tratta ancora di latino, in gran parte, ma con qualcuna delle caratteristiche che poi entreranno a far parte della lingua italiana. I verbi al passato, che dovrebbero finire in -t, finiscono in -a “pareba, araba, teneba, seminaba”, invece che “parebat, arabat, tenebat, seminabat”. In italiano, nei secoli successivi, la ‘b’ si sarebbe trasformata in ‘v’ per formare l’imperfetto “pareva, teneva, arava, seminava”. (qui una slide che riassume cosa c’è di volgare e cosa c’è di latino nella scritta).

Si trattava di un indovinello aggiunto forse da qualche copista a caratteri corsivi a margine di un lavoro di cui si stava occupando. Nel testo si parla di un coltivatore che “arava bianchi prati”, per cui evidentemente si tratta di una metafora dell’amanuense stesso, dove i prati sarebbero le pagine su cui scrive.

Sul web si trova in lungo e in largo la foto della pagina su cui compare l’indovinello in questione. Ora, la mia reazione da profano è che se uno crede al primo colpo che là ci sia scritto ciò che si dice che ci sia scritto, può credere al volo anche che la Terra sia piatta. Nel senso che le lettere di cui è composto il testo non somigliano minimamente alle lettere che usiamo noi oggi, né stampatelle né corsive; non somigliano alle lettere che usavano gli antichi romani sui monumenti, ma neanche a quelle che usavano nei manoscritti (e che si vedono più sotto, nella scritta scolorita attorno al disegno).

È perfino difficile contare il numero di parole, e di sicuro la stima che uno può fare al volo è diversa dal conteggio delle parole nella trascrizione.

Alcuni siti provano ad evidenziare le varie parti della frase mettendole in relazione con la trascrizione, e allora uno, con un po’ di fatica, può cercare di identificare le singole lettere.

Volendo credere sulla fiducia che gli storici abbiano visto giusto, ne viene fuori per esempio che la a è tracciata come se fosse una u. Del resto anche la v è pressoché una u. La t non ha un tratto ascendente, mentre invece spesso è la e a salire sopra la lettera successiva, se questa è una m o una n. La s di inizio parola è una s lunga. Lo spazio tra le parole c’è o non c’è, a discrezione del copista.

L’indovinello vero e proprio sono solo le prime due righe (una riga, più una parola). Mentre la terza riga è una formula di lode a Dio.

Dice Wikipedia che la calligrafia è corsiva nuova romana, e fornisce anche il link alla pagina relativa. La corsiva vecchia l’avevo già vista perché è stata digitalizzata dal professore spagnolo Juan-Josè Marcos, nell’ambito della sua serie di font paleografici adatti a trascrivere tutti i manoscritti dall’impero romano alla fine del medioevo.

Le lettere, nella corsiva vecchia, erano comunque abbastanza separate tra di loro. La corsiva nuova dovrebbe essere più leggibile, perché molte delle lettere cominciano ad avere le forme moderne (b,d,m,n,p,q, a giudicare dallo specimen che si vede su Wikipedia), invece visivamente risulta perfino più incomprensibile di quella antica.

Bisogna farci l’occhio. La s, nel testo, sembra quasi uno di quei pupazzi ad aria che agitano le braccia dove c’è una festa con animatori; la r concettualmente potrebbe somigliare alla corsiva moderna, ma nell’uso è irriconoscibile. Spesso la i scende al di sotto della linea di base, come fosse una j, e comunque è senza puntino.

Compare anche una g, che ricorda quella insulare, senza occhiello superiore (qui sembra un numero 3, ma non sempre, con la parte superiore spigolosa).

Sull’invocazione finale sono costretto ad alzare bandiera bianca. Perché con tutta la buona volontà possibile, tutte le lettere della trascrizione non ce le vedo.

Ci sarebbe scritto “gratiam tibi”. E questo significa che la sillaba ti, che qui compare due volte, è tracciata come una via di mezzo tra una a (moderna) e una q. La parola “omnipotens” non è scritta per esteso, al massimo arrivo a leggere “ommps”. Le ultime lettere della parola “sempiterne” si ammucchiano una sull’altra in maniera incomprensibile, mentre la parola “Deus” forse si riduce ad un “ds” attaccato come suffisso all’ultima parola, forse sovrastato da una tilde.

Uff! Che mal di testa!

Commenti

Post più popolari