Imprint

L’Imprint Antiqua (o Old Style) viene citato spesso quando si parla di Johnston, il disegnatore che mise a punto il font in uso nella metropolitana di Londra negli anni Dieci del Novecento e tuttora in uso (un sans serif che ha ispirato poi anche i lavori di Gill).

L’Imprint è datato 1912-1913 e porta anche le firme di Gerard Meynell, Ernest Jackson e J. H. Mason. Non è niente di particolare, visivamente: non è nient’altro che una versione del Caslon che doveva essere utilizzata per la rivista The Imprint, che tra l’altro durò ben poco. Semmai è importante perché, a quanto si dice, è stato il primo carattere sviluppato specificatamente per la composizione meccanica.

Sarebbe interessante sapere se c’erano delle esigenze particolari di cui i disegnatori dovevano tenere conto. Le prime macchine monotype risalgono all’ultimo decennio dell’Ottocento, quindi è chiaro che già da tempo i caratteri esistenti erano stati adattati ai sistemi di questo tipo. Le descrizioni che si trovano sul web si limitano a notare che in questo caso c’è una maggiore altezza della x.

L’Imprint originariamente veniva usato per i testi, ma la versione più familiare al giorno d’oggi per gli utenti Microsoft è l’Imprint Mt Shadow, caratterizzato da un riflesso bianco sulle aste e in alcune delle grazie, che ovviamente è adatto a usi display

Racconta Wikipedia in inglese che quando venne fornita la prima versione del carattere ai committenti mancavano del tutto le lettere accentate. La cosa creò un certo disappunto nella rivista Imprint: “I lettori gentilmente li inseriranno da sé, se l’omissione gli darà fastidio?”, scrissero i redattori in un articolo, precisando che superato lo shock iniziale avevano trovato qualcosa di positivo nell’aspetto trasandato che gli articoli venivano ad assumere.

Ma se la rivista era in inglese, quanti accenti venivano a mancare? (le parole inglesi di solito non sono accentate).

La versione digitale dell’Imprint della Monotype in vendita oggi su My Fonts dice di comprendere 12 stili, anche se poi ne elenca solo 10: i quattro stili di base nelle versioni Std e Pro, più due nella versione Shadow (regular e italic).

L’apposito strumento di Identifont elenca una sola differenza tra l’Imprint e il Caslon della Adobe (datato 1725, ma in realtà commercializzato nella versione digitale dal 1990): mentre la T del Caslon ha delle grazie che puntano anche verso l’alto, alle estremità dei due bracci, nell’Imprint la parte superiore della T è pressoché piatta.

A occhio si nota al volo un’altra differenza fondamentale (oltre alla diversa larghezza delle lettere): la coda della Q, che per la Adobe è lunga tanto da andare a sottolineare la lettera successiva, nell’Imprint è molto corta. Inevitabile, in epoca di composizione meccanica, quando non c’era modo di gestire il kerning in maniera dinamica come nel mondo digitale. L’unico modo per avere una coda della Q fatta come piace alla Adobe sarebbe stata fondere un carattere unico che univa le lettere Qu. Comunque utile, visto che almeno in italiano e latino la u è la sola vocale che di solito segue la Q, ma inutile in altri casi (in questi anni capita spesso di scrivere al Qaeda, servirebbe un’altra legatura, in mancanza di kerning).

C’è da dire che Caslon non ha disegnato un solo font in tutta la sua vita. All’epoca produrre un set di caratteri in una nuova dimensione significava pressoché ridisegnarlo da capo, tenendo conto delle nuove esigenze (in grande ci si poteva concentrare sui dettagli e sul contrasto, in piccolo no). Quindi chi ha dovuto creare versioni moderne e digitali dei font di Caslon ha dovuto scegliere a quale delle varie versioni ispirarsi. Il Caslon della Linotype ad esempio ha una Q con coda zigzagante, come quella che piaceva a Baskerville, e lo stesso discorso vale per il Caslon della ParaType e per uno di quelli della Bitstream.

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