Un regalo sbagliato

Qualche anno fa un tale negli Stati Uniti ha comprato su Amazon la ristampa del Manuale Tipografico di Bodoni. Il libro è una pietra miliare nella storia della tipografia: contiene tutti i caratteri realizzati dall’incisore italiano agli inizi dell’Ottocento, lavori che si distinguevano in eleganza e raffinatezza da tutto quello che c’era stato prima. L’acquirente lo ha preso per regalarlo a Natale a sua moglie, graphic designer, sulla base di quello che aveva letto nella New York Times Gift Guide. Quando però lei lo ha spacchettato, la sera di Natale, è stata una delusione clamorosa. L’utente lo ha raccontato nella recensione su Amazon, a perenne memoria:

“Pochi minuti dopo averlo scartato, la mia faccia era all’incirca del colore della copertina. Solo quei pochi che sono profondamente interessati alla storia della tipografia, (non alla tipografia in generale) possono apprezzare questo libro. Ogni pagina contiene un facsimile dell’originale che è un piccolo rettangolo. Il 75% di ogni pagina è spazio bianco. Il libro potrebbe essere stato metà della sua dimensione se l’editore lo avesse voluto. Proveremo a restituirlo subito dopo le feste”.

Alcuni utenti hanno lasciato recensioni positive per questo testo che è considerato la “bibbia” della tipografia: il 61% dei clienti di Amazon gli ha dato 5 stelle. Ma qualcun altro ne ha messo in evidenza i limiti: “Proprio una bella riproduzione di un classico del diciannovesimo secolo! Purtroppo, è poco più di una curiosità, visto che la tecnologia e l’innovazione hanno lanciato la tipografia verso il cambiamento. Vorrei non avere speso i miei soldi in questo, quando ci sono molte cose più utili là fuori. Lo guardi una volta, e questo è tutto. Non è neanche una buona fonte di riferimento”.

Al momento il libro è in vendita a meno di 20 euro per 749 pagine.

Volendo, lo si può sfogliare gratuitamente sul sito Biblioteca Bodoni.

Mentre il libro in vendita è di sole 749 pagine, l’originale era il doppio, suddiviso in due volumi. Infatti spesso le pagine pari erano lasciate in bianco, e guardandone la scannerizzazione si capisce perché: i caratteri impressi sull’altra facciata si vedevano in trasparenza, e avrebbero sporcato la purezza della stampa sulla pagina successiva.

Quindi l’editore moderno ha già dimezzato il numero delle pagine rispetto all’originale, stampando su entrambe le facciate visto che oggi non c’è più questo problema. Resta il fatto che i caratteri, per essere messi in evidenza, erano inseriti in una cornice che effettivamente lasciava un bordo bianco spropositato tutto attorno. Insomma, non si tratta di una scelta dell’editore moderno, ma di una riproduzione fedele delle scelte fatte nell’Ottocento.

La varietà dei caratteri presenti nel Manuale è minima. Chi lo sfoglia ha l’impressione di vedere solo caratteri Bodoni in tutte le dimensioni e in tutte le salse. All’epoca non c’erano caratteri fantasia, ma non esistevano neanche i senza grazie. Un po’ di varietà è data dagli alfabeti stranieri, molti dei quali però non capiterà mai neanche di vederli nel mondo reale, oltre che di usarli.

Per quanto riguarda i caratteri più piccoli, capita che neanche gli specialisti li sappiano distinguere uno dall’altro, senza lente d’ingrandimento. Mentre per i più grandi, le differenze vanno interpretate a occhio. Per esempio, scrivendo un articolo su C-a-s-t, un esperto si è reso conto che i tre tipi di carattere in dimensione ducale, chiamati rispettivamente Gaeta, Bitonto e Calvi (tutti i caratteri di Bodoni portano i nomi di qualche città), possono essere interpretati come tre pesi diversi di uno stesso progetto: come dire light, medium e bold. 

Il fatto è che all’epoca non esisteva il concetto di typeface come lo conosciamo oggi, ossia come famiglia di font: un’unica idea di base che viene poi declinata in tutte le dimensioni (visto che i font sono scalabili), in tutti i pesi (dal thin al black), e in varie larghezze (condensed, extended), senza contare talvolta i font complementari (slab, sans, monospace a cui viene dato lo stesso nome). Ogni grandezza diversa all’epoca aveva un nome a sé, come pure ogni modifica nello spessore delle lettere. E Bodoni stava già abbastanza avanti, perché con lo stesso nome indicava tondo, italico e maiuscoletto. Quindi almeno in embrione un’idea di famiglia di caratteri ce l’aveva.

Come non c’erano nomi per i vari pesi, mancava anche un’unità di misura unica: ogni dimensione aveva una sua denominazione precisa. Oggi possiamo dire che un carattere in corpo 20 è il doppio di uno in corpo 10 anche senza misurarlo, ma all’epoca quale era il doppio di un carattere in dimensione parangone? Nel Manuale di Bodoni non c’è nessun riferimento per ricondurre le varie dimensioni a unità di misura conosciute. L’unico riferimento che abbiamo sul web, dice ad esempio che il parangone doveva essere da 20 punti tipografici. (In questo caso il doppio... non esiste! Nella tabella, e anche nel manuale di Bodoni, si passa dal canone, che dovrebbe essere di 36 punti, al corale che sarebbe di 44).

C’è da dire poi che Wikipedia non spiega di quali punti si sta parlando. Tra il punto Didot che si usava prima e il punto Postscript che si usa ora c’è una differenza di 2 decimi di millimetro, che in corpo 12 vuol dire un centimetro in più o in meno su 50 righe.

Dal punto di vista di un grafico moderno, l’impaginazione del volume è meno interessante rispetto a quella dei manifesti funebri: c’è sempre lo stesso testo, l’inizio di un’orazione di Cicerone, inserito sempre nella stessa cornice, sempre in nero su fondo bianco, e sempre in una variante dei caratteri bodoni. Oggi un qualsiasi specimen tipografico viene inserito in un contesto, con disegni di sfondo, colori, inclinazioni diverse del testo. Già nelle brochure del secolo scorso, quando ancora i caratteri metallici erano disponibili in un numero di dimensioni limitato, si giocava con le lettere, rovesciandole e componendole in maniera tale da evidenziarne le peculiarità.

Quindi, per i grafici digitali il manuale è inutile, per i font designer può essere fonte di ispirazione solo nei progetti che si ispirano al Settecento. Per i tipografi può essere uno status simbol da esibire nel proprio ufficio.

E dal punto di vista intellettuale? Beh, il libro non è composto solo di parole senza senso: c’è una lunga introduzione in cui Bodoni in persona spiega la sua visione del mondo: “Eccovi i saggi dell’industria e delle fatiche mie di molti anni consecrati con veramente geniale impegno ad un’arte, che è compimento della più bella, ingegnosa e giovevole invenzione degli uomini, voglio dire dello scrivere, di cui è la stampa la miglior maniera...”, eccetera eccetera.

Sarebbe interessante se qualcuno avesse pensato a trascriverlo in .txt o giù di lì, magari per leggerlo comodamente come e-book senza i limiti delle cornicette dell’impaginazione originale, ma a quanto pare nessuno ci ha pensato.

A proposito: nella recensione c’era scritto che il 75% della pagina è bianco. Un’esagerazione?

Provo a fare una stima: mi sembra che la cornice più grande occupi solo il 33% della pagina. Tutto lo spazio attorno, ossia il 66%, non contiene nulla, a parte il numero della pagina (molto in piccolo).

Solo che dentro la cornice grande ce n’è una più piccola, e in quella piccola c’è un margine di circa un centimetro dai contenuti. Ai lati. Invece in alto c’è il nome della dimensione, molto distanziato da tutto il resto e nella parte inferiore c’è il nome del font, molto, molto distanziato dal bordo. In conclusione, nella parmigianina, ossia la dimensione più piccola, lo spazio che resta per il testo è solo...l’8% della pagina! (includendo anche un paio di righe lasciate bianche a separare le minuscole dalle maiuscole e dalle maiuscolette).

Sì, anche oggi lo spazio vuoto ha la sua importanza per alleggerire la composizione, ma forse Bodoni ha esagerato!

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