Il testo segnaposto nei giornali
Era il 3 novembre 2017 e la prima pagina della sezione locale del quotidiano Repubblica dedicata alla cronaca di Roma si apriva con la ricostruzione del modus operandi degli estremisti di destra autori di pestaggi nei confronti degli immigrati.
Almeno, l’intenzione del titolo era quella, ma il testo dell’articolo aveva qualcosa che non quadrava: era composto sempre della stessa frase che si ripeteva più e più volte e che confessava candidamente di voler soltanto riempire lo spazio.
Un errore di stampa che non mi è capitato di vedere altre volte, e che in quell’occasione finì proprio nel posto peggiore, l’articolo di apertura, cioè quello che viene notato da tutti.
Gli stampatori, i grafici, i programmatori, da sempre hanno fatto uso di testi di prova per poter valutare l’aspetto visivo di una pagina prima che sia disponibile il testo da inserirci.
Il più famoso viene chiamato “lorem ipsum”, dalle prime due parole. È composto di termini latini estratti da un testo di Cicerone. Fu utilizzato con questa funzione per la prima volta nel 1500. Le parole compongono un testo privo di senso, in maniera tale da non attrarre l’attenzione sui contenuti. Sono state scelte in maniera da alternare quelle lunghe a quelle brevi, per ottenere un effetto complessivamente simile a quello di un testo reale.
Nel programma gratuito di desktop publishing Scribus invece ci sono, nella versione italiana, alcuni paragrafi tratti dai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. L’utente sceglie quanti ne vuole, e il software gliene fornisce il numero richiesto, ordinati in maniera casuale.
La scelta di ripetere varie volte la stessa frase spesso viene evitata, perché determina un effetto innaturale, con percorsi visivi obliqui dovuti al fatto che gli stessi elementi compaiono riga dopo riga, sfalsati sempre dello stesso passo.
Repubblica però aveva un motivo per fare una scelta del genere: ogni volta che la frase viene ripetuta, il numero viene aggiornato. In tal modo ci si può rendere conto visivamente di quanto spazio è disponibile per il testo.
Il conteggio si riferisce alle “righe cartella”, che evidentemente sono l’unità di misura in uso nel quotidiano, che fornisce ai giornalisti un’indicazione sulla lunghezza degli articoli che devono scrivere.
Si tratta di una unità che non ha nulla a che vedere con l’effettiva lunghezza della riga sulle pagine del giornale, dato che articoli diversi possono essere impaginati in colonne di larghezza diversa. Inoltre è possibile impaginare le immagini in maniera dinamica, con alcune parti che vanno a finire in mezzo al testo degli articoli, così che ogni riga ha una larghezza diversa per adattarsi al contorno della foto.
Ai tempi delle macchine da scrivere ogni riga sul foglio veniva impostata dal giornalista a una larghezza di 60 caratteri (monospace). La frase di Repubblica è lunga 59 caratteri, e per arrivarci ogni numero è composto di tre cifre (001, 002, 003...).
Così si può mettere a punto la pagina, con titoli, foto e tabelle, riservando abbastanza spazio ad un articolo di un certo numero di righe cartella che è ancora in fase di scrittura. Oppure si può comporre la pagina assegnando lo spazio ai vari articoli, e comunicare poi al giornalista quanto spazio deve riempire, in righe cartella.
Sul web si trovano in vendita le ristampe dei giornali di scena realizzati per i film della serie Ritorno Al Futuro. Lì tutti gli articoli sono composti da paragrafi di lunghezza diversa, ripetuti in maniera casuale, che contengono un testo giornalistico che in realtà non dice niente: “Anche se l’esito finale di questa situazione deve ancora essere determinato, è possibile che quando tutti i fatti verranno valutati alla conferenza in programma per la prossima settimana, una decisione verrà presa per soddisfare possibilmente le esigenze di tutte le parti in causa”. In quel caso però non si trattava di un vero quotidiano. Le scritte servivano soltanto per dare l’impressione della presenza di un articolo. Tutto quello che si riusciva a percepire nel film era solo il titolo a caratteri cubitali e la fotografia di uno degli attori.
Una frase che compariva per sbaglio sui veri quotidiani in passato cominciava per “etaoin shrdlu”. Si trattava della sequenza delle lettere presenti sui tasti delle linotype, che venivano premuti uno dopo l’altro per testare la macchina o per completare una riga con un errore di stampa da rimuovere prima di impaginare l’articolo. Capitava che qualcuna di queste righe sfuggisse al controllo e venisse stampata. Il lettore si trovava di fronte questa frase misteriosa all’interno dell’articolo, e se non sapeva niente di linotype probabilmente non poteva spiegarsela.
Comunque l’incidente capitato a Repubblica, che è passato praticamente inosservato, era già capitato l’anno prima ad un giornale africano, The East African.
In quel caso lo sbaglio era ancora più clamoroso, perché riguardava la prima pagina nazionale, anzi internazionale, visto che il quotidiano è distribuito in tre Paesi: Tanzania, Uganda e Ruanda.
Una delle cause erano forse i tagli al personale, che avevano lasciato uno staff sottodimensionato. Ci si era anche chiesti se si sarebbero presi provvedimenti nei confronti del responsabile.
A proposito dei testi segnaposto pubblicati per sbaglio, c’è un utente che ne ha raccolti alcuni in lingua inglese.
Il più interessante forse riguarda un vasto assortimento di “blah blah blah” usato in tutti i richiami della prima pagina sportiva del Sunday Indipendent. C’è poi un “Qui ci va un titolo 30pt”, oppure un “mettere una citazione di cinque righe qui” sempre sui quotidiani.
Ce n’è anche una che non mi aspettavo: sull’etichetta di una bottiglia di vino, raffinata, con tanto di stemma dorato. Un lorem ipsum è rimasto scritto in cinque righe con un’elegantissima corsiva inglese
Per quanto riguarda Repubblica c’è da dire che il testo sulla prima pagina romana era solo la presentazione dell’articolo vero e proprio, che compariva normalmente nella pagina successiva.
Notiamo che all’epoca non c’era ancora stato il restyling che ha introdotto il font Eugenio per titoli e articoli che si usa ancora oggi. Negli articoli si usava un Egyptian con una g che aveva un solo occhiello. Nei titoli, il Cheltenham (come sul New York Times), che in quest’occasione vediamo con le lettere molto avvicinate tra di loro, fino a toccarsi in alcuni casi. Non sarebbe stato neanche necessario, in questa misura, visto lo spazio bianco che rimane sulla destra.
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