La produzione di un libro negli anni 60-70

Su Youtube c’è un documentario d’epoca che mostra come veniva realizzato un libro negli anni Sessanta e Settanta.

Visto con gli occhi di oggi, sembra provenire da un altro pianeta, visto che non compaiono mai computer. 

All’epoca il computer era uno strumento di calcolo, poteva essere usato al massimo nella contabilità delle grandi aziende, oltre che in ambito scientifico e tecnologico (e sempre programmandolo in linguaggio macchina).

Il desktop publishing, ossia la possibilità di impaginare un testo sul monitor, venne messo a punto soltanto negli anni Ottanta. 

All’epoca in cui è stato realizzato il filmato, il punto di partenza era il dattiloscritto, ossia il testo del libro battuto dall’autore con la macchina da scrivere. 

L’autore lo consegnava di persona all’editore, il quale lo affidava al personale della sua casa editrice, che oltre a correggere gli errori doveva segnare a penna sulle pagine le indicazioni per l’impaginazione: quali parole dovranno essere in corsivo, quali in neretto, quali in maiuscolo.

Si passava poi alla composizione: e qui vediamo entrare in azione la linotype. Il linotipista doveva battere sulla sua tastiera tutto il testo del libro, lettera per lettera. 

Ogni volta che completava una delle righe da stampare, la macchina realizzava un blocchetto metallico con le lettere in rilievo.

Ovviamente corpo del testo, carattere e lunghezza della riga dovevano essere decisi in anticipo. Non si poteva ingrandire o rimpicciolire, allargare o restringere. Qualunque cambiamento successivo voleva dire dover ridigitare tutto dall’inizio.

Viene mostrato anche l’altro sistema di composizione a caldo molto usato in editoria all’epoca, quello della monotype. Qui, battendo sui tasti, le informazioni venivano salvate su un rotolo di carta in maniera digitale, diremmo noi, tramite un insieme di forellini.

Il nastro veniva messo poi nella macchina fonditrice, che realizzava i caratteri in metallo con le lettere in rilievo, uno alla volta, in rapida successione, sempre a partire dal metallo fuso.

Con questo sistema, in caso fosse stato necessario ristampare il libro, non si doveva trascriverlo di nuovo: bastava inserire nuovamente nella fonditrice il nastro perforato col testo memorizzato.

All’epoca era già in uso anche la fotocomposizione, che permetteva di evitare di passare attraverso la fase del piombo fuso, grazie ai principi chimici che sono alla base della tecnica fotografica. Qui vediamo anche i primi monitor su cui viene visualizzato il testo della pagina. Non si tratta, comunque, di computer in grado di eseguire calcoli e operazioni sul testo, ma di macchine single purpose, adatte solo a impaginare secondo le istruzioni fornite dal fabbricante.

La correzione della prima bozza stampata avveniva col metodo della lettura a due: una persona leggeva il dattiloscritto, l’altra controllava che lo stampato corrispondesse.

Una seconda bozza della pagina veniva ritagliata e incollata su fogli dell’esatto formato del libro, che dovevano essere il riferimento per il tipografo che avrebbe dovuto poi stampare la versione definitiva.

Ad esempio, la bozza di venti righe di testo poteva essere tagliata a metà, per ottenere due colonne di testo da incollare nella parte alta della pagina, mentre nella parte bassa veniva incollata un’anteprima dell’immagine che bisognava inserire, con la didascalia scritta a mano e le indicazioni sui caratteri tipografici da utilizzare.

Il tipografo usava un tipometro per misurare sul menabò le varie parti che dovevano comporre la pagina e disporre nella maniera corretta le righe composte e i cliché. I titoli andavano composti a mano, come ai tempi di Gutenberg.

Bisognava poi effettuare un nuovo controllo di corrispondenza tra le bozze in colonna e quelle in pagina, per assicurarsi che le correzioni fossero state eseguite. Bisognava assicurarsi che il tutto corrispondesse col menabò. E ovviamente si rileggeva il testo per assicurarsi che non ci fossero ulteriori errori.

La stampa non avveniva in rotativa, ma su macchina piana a fogli separati.

Su ogni facciata del foglio venivano stampate varie pagine, ad esempio 16, disposte in maniera tale che una volta ripiegato il foglio e tagliati i bordi le pagine si sarebbero disposte secondo la loro numerazione. La stampa avveniva separatamente per le due facciate: prima su quella chiamata bianca per tutta la tiratura, poi su quella chiamata volta.

Esisteva già la stampa offset. Qui le righe in piombo si usavano per stampare su cellophane o carta velina trasparente. I titoli venivano realizzati su pellicola con piccole macchine fotocompositrici. Anche le illustrazioni erano su pellicola.

La fase successiva era quella del montaggio, che avveniva in un’apposita stanza dotata di tavoli luminosi.

Per le immagini a colori, l’apposito reparto doveva approntare quattro cliché diversi.

Il foglio trasparente col materiale montato serviva per impressionare le lastre di alluminio destinate alla macchina stampatrice.

Lo sviluppo della lastra veniva fatto a mano in apposite vasche. La lastra andava asciugata nella centrifuga e poi laccata a mano.

Le quattro lastre per stampa a colori venivano montate a mano nella macchina per la stampa offset quadricolore. E a mano si caricava l’inchiostro.

Bisognava poi procedere alla registrazione ossia a regolare la macchina in maniera tale da sovrapporre alla perfezione le varie stampe colorate. Nonché bisognava regolare, sempre manualmente, la quantità di inchiostro per avere un’inchiostratura omogenea (oggi anche queste operazioni possono essere svolte in automatico grazie ai sensori collegati a un computer).

La macchina in questione non era una rotativa e stampava su fogli singoli. Nelle rotative propriamente dette la carta è in bobina. 

Si passa poi al reparto legatoria, dove una macchina eseguiva le varie pieghe per arrivare al formato del libro.

I vari fascicoli venivano ordinati, a catena di montaggio, inviati alle cucitrici automatiche e poi alla macchina brossuratrice, che spalmava la colla e aggiungeva la copertina di cartoncino.

Quando la colla era asciutta il libro passava sotto la taglierina trilaterale per il raffilo, in due fasi.

La prima copia veniva mostrata all’editore. Il libro arrivava poi nelle librerie dove veniva comprato da un giovane acquirente.

Fine.

In 11 anni il documentario ha totalizzato 12 mila visualizzazioni.

Pochi commenti, alcuni dei quali su una questione interessante: nel filmato si dice che i quattro colori della quadricromia sono giallo, rosso, blu e nero.

Ma oggi si parla di giallo, magenta, ciano e nero.

Sono cambiati i colori? 

No, è semplicemente cambiata la terminologia. 

I colori sono gli stessi che usiamo ancora oggi, anche nelle stampanti per computer. Ma all’epoca i tipografi chiamavano blu il ciano e rosso il magenta, mentre i nomi corretti erano in uso solo tra i fotografi. Lo spiega nei commenti lo stesso utente che ha caricato il video.

Commenti

Post più popolari