Il monopolio della Monotype
Domenica Il Post ha dedicato un articolo al quasi-monopolio della Monotype nel mondo dei font.
L’azienda, da sempre uno dei colossi nella produzione dei caratteri tipografici grazie all’invenzione, nell’Ottocento, di una macchina per la composizione a caldo, negli ultimi anni è cresciuta a dismisura.
Ha prima acquistato la sua concorrente Linotype, che era un altro colosso del settore grazie a un diverso tipo di compositrice meccanica, molto usata nei giornali. Poi ha acquistato Ascender Corporation e FontShop. In seguito ha acquisito le fonderie digitali Urw e Hoefler&Co. Oltretutto, è diventata proprietaria della società che controlla My Fonts.
Questo vuol dire che ogni volta che viene acquistato un font, dai classici Monotype e Linotype come Times New Roman ed Helvetica, fino all’ultimo progetto che un piccolo studio grafico ha caricato su My Fonts, l’azienda incassa dei soldi. E può fare il bello e il cattivo tempo per quanto riguarda i prezzi, rischiando di danneggiare alcuni produttori.
L’articolo si sofferma su un nuovo servizio offerto da My Fonts, che permette ai clienti di accedere ad una libreria di caratteri molto ampia pagando una tariffa fissa mensile. I proventi poi verranno suddivisi in maniera proporzionale a quanto vengono usati i vari font.
Il problema è che un font tipo Helvetica viene usato infinitamente di più rispetto all’ultimo progetto del disegnatore emergente. Il risultato è che gran parte degli incassi finiranno in mano a Monotype, e solo una piccolissima parte arriverà ai piccoli designer.
Finora il disegnatore poteva fissare il prezzo dei suoi prodotti. Diciamo: ad esempio l’Internal Display di Typehill Studio costa 16 euro e 5 centesimi. Se una sola persona al mondo decide di acquistarlo, dovrà pagare per forza quella cifra, di cui circa la metà finirà nelle tasche del disegnatore e il resto in quelle della piattaforma. Con l’abbonamento invece, se un solo abbonato su mille usa quel font, al disegnatore arriverà solo un millesimo della cifra da redistribuire. Che magari è molto meno di quella che avrebbe fissato lui.
L’articolo contiene anche un virgolettato attribuito a Nick Shinn, che gestisce una fonderia indipendente canadese: “Se qualcuno dicesse, ‘Ehi, Nick, ti daremo una grossa somma di denaro per i diritti sulla tua libreria di font esistente e sulla loro proprietà intellettuale’ non avrei scrupoli. Stiamo tutti qui a criticare la concentrazione monopolistica dell’industria e i suoi effetti negativi, ma alla fine tutti questi piccoli operatori si svenderebbero per la giusta cifra”.
Che in effetti non rende l’idea del meccanismo che c’è dietro. La scelta non è tra vendere un font da sedici euro in proprio o venderne dieci a sedici euro sulla piattaforma. La scelta è tra ottenere pochi centesimi dalla piattaforma o non ottenere niente rimanendone esclusi.
Chiaramente ogni fonderia è libera se aderire all’iniziativa o meno, specifica l’articolo. Ma rimanendone fuori si rischia di non ricavare nulla, se i potenziali clienti partono dall’idea che devono scegliere tra i font disponibili senza andare a cercarne altri altrove.
L’articolo nomina due piattaforme indipendenti per ora dalla galassia Monotype: Creative Market ed Etsy. Sulla prima ci sono 82mila font, sulla seconda 5mila. Monotype è a quota 250mila.
E ne cita di sfuggita altre due: Fontstand e Village. Prima di nominare Adobe Fonts, colosso informatico che ha pure una libreria da 20mila font commerciali.
L’articolo del Post contiene qualche inaccuratezza tecnica. La Monotype viene presentata come produttrice della prima “macchina stampatrice completamente meccanica”. Definizione attinta dalla pagina di Wikipedia in italiano, ma che mi suona un po’ strana. Le macchine Monotype servivano per comporre i testi fondendo sul momento i caratteri in metallo, sulla base delle informazioni battute su una tastiera a parte. Per stampare, bisognava trasferire il materiale in una pressa. Infatti la versione in inglese parla di “fully mechanical hotmetal typesetter” (ossia macchina compositrice, non stampatrice).
Più avanti l’articolo dice che col nome di “fonderie tipografiche” si “continuano a indicare le aziende del settore anche se lavorano esclusivamente per la videoscrittura e quindi non hanno veri stabilimenti in cui si stampa fisicamente qualcosa”. In effetti le fonderie si chiamano così perché erano degli stabilimenti in cui si fondeva il metallo per ottenerne dei caratteri da stampa. In seguito, realizzavano matrici battendo i punzoni sul metallo solido. Oggi sono degli studi grafici in cui tutto il lavoro viene fatto a computer. Vero che l’uso del termine “stampare” può essere collegato col fatto che per la fusione sono necessari degli stampi, ma in un settore in cui questa parola è collegata coi concetti di carta e inchiostro si può creare qualche confusione.
Sul sito della Monotype ci sono le tariffe per chi si vuole abbonare. La più economica è da 99 dollari all’anno, e prevede “unlimited prototyping with 40,000+ fonts”.
Il titolo dice che questi font provengono da “più di 25 fonderie di caratteri”, ma l’elenco di quali sono non è facilmente accessibile.
Scorrendo la lista dei font disponibili, ne individuo 21: Bitstream, Exljbris, Fontfabric, FontFont, Halfbett, Hanoded, Itc, Latinotype, Laura Worthington, Linotype, Mark Simonson, Melvastype, Monotype, Mostardesign, Ogj Type Design, ParaType, Paulo Goode, Radomir Tinkov, The Northern Block, TypeType e Urw.
Alcuni sono marchi affermati, altri sono nomi pressoché sconosciuti.
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