L’impresa di Fra’ Pippoldo

Abbiamo visto varie storie a fumetti Disney collegate con l’invenzione della stampa. Una era ambientata nel mondo dei topi, con Pippo che prendeva ispirazione dalla pasta a forma di lettere per inventare i caratteri mobili. Un’altra era ambientata nel mondo dei paperi, con Paperino che faceva un viaggio nel tempo per assistere agli sviluppi dell’invenzione. E poi ce n’era una dedicata ad Aldo Manuzio.

A quanto pare ne esiste anche un’altra: “L’impresa di fra’ Pippoldo” , testo di Giorgio Pezzin, disegni di Paolo Mottura, pubblicata la prima volta su Topolino 2584 nel 2005.

La storia si apre con Topolino soldato di ventura disoccupato, che cavalca tranquillo strimpellando su una specie di chitarra. Vede che dei briganti stanno derubando due frati e li mette in fuga. Per gratitudine uno dei due frati, interpretato da Pippo, lo invita al monastero, ma si rifiuta di spiegargli che cosa sono quei blocchetti di piombo contenuti nella borsa che gli stavano rubando. Sembra considerarli molto importanti.

Nella notte Pippo e l’altro frate, Orazio, lavorano segretamente per completare l’invenzione. Topolino sbircia ma non riesce a capirci niente.

Il giorno dopo, davanti a tutti i frati riuniti e a Topolino, Pippo svela un torchio da stampa. Ne mostra il funzionamento e convince i monaci, timorosi di perdere il posto di amanuensi, che possono mettersi a scrivere libri e venderne in grande quantità.

 


 

Si rendono conto poi che i contadini non sanno leggere, e fondano una scuola aperta a tutti. Il signorotto locale Gambadilegno inizialmente non si preoccupa tanto del problema: non vede l’utilità dell’invenzione e non la considera una minaccia.

Quando però i contadini cominciano a ridiscutere i contratti e a ricevere informazioni discordanti sulle tariffe da pagare, col rischio di scoprire che Gambadilegno le ha ritoccate a suo favore e denunciarlo ora che sanno scrivere, il manigoldo va a chiamare rinforzi per distruggere la pressa e riprendere il controllo della situazione.

I nostri eroi lo vengono a sapere, e stampano un giornale che denuncia tutte le malefatte di Gambadilegno, con tanto di vignette che lo mettono in ridicolo e dissipano l’alone di terrore che lo circondava.

Così quando il signorotto arriva con i suoi scagnozzi viene attaccato e messo in fuga.

“La diffusione della cultura cambierà tutto”, dice Pippo. “Questi secoli oscuri finiranno e ci sarà un Rinascimento”.

“Tutto merito della vostra macchina per stampare”, gli dice Topolino. Che aggiunge, parlando della sua spada. : “Un giorno anche queste armi saranno inutili.”

“Hai deciso di cambiare mestiere?”, gli chiede l’altro.

“Già. Sembra che... colpisca più la penna che la spada. Sarà bene adeguarsi!”

“Eh eh”, ride Pippo.

Il fumetto è stato ristampato da Giunti un paio di anni fa in un volume intitolato Rinascimento, come prima storia.

La visione è fin troppo ottimista. Purtroppo, anche se oggi tutti sanno leggere, le guerre non sono finite, e la prospettiva non promette di migliorare.

Quello che si scrive non è necessariamente vero, e ridicolizzare una persona che non lo merita porta effetti negativi. Vedi tutta la questione delle fake news.

Comunque l’idea che ne è alla base non è molto lontana dalla realtà. La riforma protestante si basava anche sul fatto che i fedeli potessero leggere di persona la Bibbia anziché dipendere dalla mediazione della Chiesa. E prima della stampa, una Bibbia richiedeva cinque anni di lavoro per essere completata, arrivando a costare quelle che oggi sarebbero decine di migliaia di euro, per cui era inaccessibile ai più.

Anche la nascita della democrazia moderna è collegata con la diffusione della stampa. Come avrebbero potuto i cittadini chiedere il diritto di voto, se non fossero stati informati di cosa dicevano le leggi e di cosa chiedevano le opposizioni?

Ma per questo bisogna aspettare la seconda metà del Settecento, ossia tre secoli.

Dal punto di vista tecnico, la pressa di Pippo viene disegnata più o meno come quella di Gutenberg, in legno, anche se non si vede mai come si posiziona il foglio sulla forma coi caratteri.

L’inchiostratura invece è completamente campata in aria: Pippo regge in mano un calamaio e spennella i caratteri con un pennellino.

In realtà l’inchiostro liquido che si usava per scrivere a mano non andava bene per la tipografia, perché non aderiva al metallo. L’inchiostro che si usava con nelle presse era a base d’olio, con consistenza pastosa e conservato in barattoli.

I tipografi lo stendevano su una superficie, ci battevano sopra due grossi tamponi in pelle, uno per ogni mano, e poi usavano questi per inchiostrare i caratteri.

Al torchio lavoravano due persone, il battitore, che inchiostrava, e il torcoliere, che sistemava i fogli e tirava la leva.

“Siete stato abile a carpire i segreti di quel coso”, dice Topolino.

Non ci possono essere segreti quando c’è di mezzo il progresso”, gli risponde Pippo – Fra Pippoldo. “Messer Gutenberg ci ha ben accolto nella sua bottega, ma altri non vedono con favore che la gente impari cose nuove”.

In realtà all’epoca non c’erano leggi che proteggevano i detentori dei brevetti. Il successo commerciale di un’azienda o di un artigiano si basava anche sul segreto. Non sappiamo nulla dei primi passi della tipografia proprio perché non vennero documentati, anzi, negli atti di un processo risulta che Gutenberg aveva dato indicazioni di smontare qualcosa prima di un’ispezione perché non si capisse cosa fosse (la pressa?).

Per parecchio tempo i dettagli rimasero segreti. I tipografi inglesi che arrivavano sul continente ottenevano facilmente i caratteri, pagandoli, ma non riuscivano in nessun modo a procurarsi le matrici o a visitare le fonderie mentre i lavoratori erano presenti. Anche il concetto di punzone non era di dominio pubblico, e non era conosciuto neanche tra gli apprendisti della bottega. Si racconta che uno dovette fare un buco nel muro per vedere come lavoravano i maestri per ottenere le matrici.

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