L’assurdo sistema di numerazione di Aryabhata
Aryabata è stato il primo dei grandi matematici-astronomi indiani. È nato nell’anno 476 ed è morto nel 550.
Una delle sue opere principali, Aryabhatiya, è stata composta nel 499 e contiene conoscenze molto avanzate per l’epoca: una tavola dei seni, la misura del pi greco, la circonferenza della Terra. E poi dati sulle rivoluzioni della Terra, della luna e di alcuni pianeti nel corso del tempo.
Fin qui nulla di strano. Il problema è che le opere di questo genere venivano scritte in versi, forse per facilitare la memorizzazione, per cui lui aveva inventato un sistema che trasformava i numeri in parole che potessero rientrare nella metrica che usava, nonostante esistessero già i numeri propriamente detti. Anche se la sua opera era conosciuta e apprezzata dagli studiosi successivi, nessuno fece uso dello stesso sistema. Per fortuna, perché sarebbe stato impossibile da usarsi per i calcoli. Un altro sistema simile fu pure in uso, sempre in India, ma anche quello venne abbandonato.
Il sistema di Aryabhata dunque si basava sulle lettere. Ma come? Anche gli antichi romani usavano lettere al posto dei numeri. Il loro sistema era basato sull’addizione e a volte sulla sottrazione. Il numero MMXXV significava 2025, dato che M vale mille, X vale dieci e V vale cinque.
Anche gli ebrei usavano le lettere dell’alfabeto per indicare i numeri: avevano assegnato ad alcune lettere un valore in unità, ad altre un valore in decine, ad altre ancora un valore in centinaia. E si fermavano lì. L’anno ebraico che è iniziato pochi mesi fa è il 5785. Il cinquemila si omette perché è troppo grosso, e i numeri restanti si scrivono con le lettere tav-shin-pe-he, dato che tav vale 400, shin vale 300, pe vale 80 e he vale 5 (400+300+80+5=785, più cinquemila sottinteso).
Anche questo sistema si basa sull’addizione anziché sulla posizione: la lettera tav vale sempre 400 anche se è scritta da sola, non esiste la collocazione unità-decine-centinaia. Né i romani né gli ebrei conoscevano il sistema posizionale e non concepivano lo 0 come segno per occupare i posti vuoti.
Ma il sistema inventato da Aryabhata è a un’altro livello, anche tenuto conto delle complicazioni della scrittura che si usava e si usa in India.
Lui prese venticinque lettere e assegnò a ciascuna di loro un valore tra 1 e 25. Sono le cosiddette lettere varga. Ne prese altre otto e assegnò loro i valori di tutte le decine tra 30 e 100.
Tutte queste lettere sono consonanti, che si leggono da sole come se fossero seguite da una a, ma che possono essere combinate con un certo numero di suoni vocalici, vocali singole o dittonghi, che anche se hanno una forma propria quando usati da soli si trasformano un piccolo diacritico aggiunto alla consonante con cui sono combinati.
Ogni vocale moltiplicava per un certo valore, che andava di cento in cento.
Quindi, ga significava 3, gi significava 300, gu 30.000. Ca significava 6, ci significava 600, cu significava 60.000.
E questi sono numeri semplici. I numeri composti si ottenevano al contrario di come li otteniamo noi, cioè le unità venivano messe a sinistra e poi si continuava coi valori più alti procedendo verso destra. Esempio: il numero 25 era la sillaba ma, da sola; il numero 200 era la sillaba khi, da sola (kha=1, khi=200, khu=20.000...); per cui il numero 225 era... makhi (prima le unità e poi le centinaia!).
Quindi il trattato di astronomia di Aryabhata era una poesia che diceva qualcosa del genere, in versi: “Ci sono khyughr rivoluzioni del Sole, cayagiyinusuchlr rivoluzioni della Luna e nisibunlskhr rivoluzioni della terra, dhunvingva rivoluzioni di Saturno, kricyubha rivoluzioni di Giove...”
Certo, a livello mnemonico può aiutare: la parola khyughr è più facile da ricordare rispetto a numero a cui corrisponde, quattromilionitrecentoventimila. Ma un trattato di astronomia scritto in questo modo, per noi, è spaventoso!
L’esempio l’ho preso da un articolo in inglese che si può consultare sul web in formato pdf. Nell’originale il testo è più accurato rispetto a quello che ho scritto io, perché fa uso dei diacritici per indicare le particolarità dei vari suoni della lingua usata in India. Sia nelle tabelle che nelle trascrizioni dei brani in lingua originale però viene sempre utilizzata solo la trascrizione latina.
Invece nell’articolo in inglese su Wikipedia viene mostrata anche la forma dei glifi nella scrittura devanagari odierna, sia nella versione di base che coi segni diacritici aggiunti a indicare le vocali.
Vogliamo provare a comporre il numero 2025, quello dell’anno che viene? Dunque, nel sistema mancano le migliaia, visto che abbiamo solo le potenze pari. Quindi duemila sono 20 centinaia, ossia la sillaba ni. Le unità possono arrivare fino a 25, che è la sillaba ma. Quindi avremmo la parola... mani (prima le unità):
मनि.
Carino! Ma sarà giusto? Chissà, non esistono siti in grado di fare la conversone in automatico.
Il Copilot di Microsoft si rifiuta di provarci, dicendo che non ha una un sistema completo di notazione di Aryabhata sotto mano. Riesce comunque a riassumere un po’ di teoria, dicendo che questo metodo si basava sulle sillabe sanscrite e che era “piuttosto complesso e affascinante”.
Noto che il numero 2025 si può ottenere solo con due simboli perché appunto le varga arrivano fino a 25.
Un numero come 3146 richiederebbe quattro simboli: una varga e una avarga per le centinaia, una varga e una avarga per le unità.
Tra gli esempi forniti nel pdf di studi sul sanscrito si trovano parecchie irregolarità. Non solo la vocale comune a varga e avarga poteva essere ripetuta due volte oppure usata una volta sola dopo le due consonanti a seconda delle esigenze, ma anche l’ordine delle sillabe poteva essere arbitrario. Immagino che la parola veniva costruita in maniera diversa per adattarla alla metrica della poesie.
Per esempio, il numero 146.564 dovrebbe corrispondere alla parola ghavanividhu se la si costruisse in maniera regolare. Invece nel testo troviamo scritto dhunvighva. Dalla coppia di valore maggiore a quella di valore minore, ma sempre con la varga prima della avarga e senza vocali tra le due.
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