I font di Google sono veramente open source?
Nel gennaio 2012 un certo Matthew Butterick scrisse un lungo articolo per criticare il progetto Google Fonts, che era stato appena lanciato. All'epoca gran parte dei siti web si affidavano ai font di sistema, mentre nel giro di pochi anni i webfont presero il sopravvento.
Secondo l'autore dell'articolo i font di Google non erano un granché dal punto di vista della qualità, ma soprattutto non erano da considerarsi veramente Open Source, perché l'approccio scelto dall'azienda era sbagliato.
Si sa, tutti i font di Google sono rilasciati con licenze che consentono agli utenti di usarli gratuitamente, modificarli a seconda delle esigenze e redistribuire le versioni modificate. Tuttavia questo non basta, perché lo spirito open source è tutt'altra cosa.
E' qualcosa che ha a che vedere con la collaborazione, con l'elevamento degli standard, anche col modo in cui vengono pagati i collaboratori.
Per un progetto open source, secondo l'autore dell'articolo, c'è bisogno che ci sia un "dittatore benevolente", ossia qualcuno che diriga il progetto e che rappresenti un anello di congiunzione tra le varie persone che lavorano insieme, anche a distanza, per aumentare la qualità del risultato finale.
Non basta che un disegnatore decida di rilasciare con licenza Ofl un progetto a cui ha lavorato per conto proprio.
In coda all'articolo c'è un aggiornamento datato 2015. A quanto pare i responsabili di Google avevano letto le critiche e avevano deciso di correre ai ripari.
Viene poi fornito un link a un articolo del dicembre 2016 in cui il blog di Google annunciava quali correzioni erano state fatte, con lista dei nomi degli esperti di tipografia che erano stati chiamati per dirigere il progetto e lavorare in squadra per ottenere prodotti di qualità a partire dalle proposte più promettenti.
Oggi Goole Fonts è ancora un punto di riferimento fondamentale sul web, e il suo archivio continua ad espandersi: oggi conta 1798 famiglie di caratteri.
L'articolo di Butterick dava anche qualche informazione su quanto Google pagava chi forniva i font: si parla di una cifra che andava dai 500 ai 3000 dollari per ciascun file.
Una cifra interessante, ma non paragonabile a quanto guadagnano i designer che lavorano direttamente per la compagnia. Anche Google in una certa misura sfruttava la retorica che viene spesso proposta ai disegnatori, per cui il committente pretende che si accontentino della visibilità che viene data al loro lavoro.
Su Wikipedia in inglese c'è una pagina dedicata a Butterick.
Nato nel 1970, è un tipografo, avvocato, scrittore e programmatore.
Ha lavorato per Font Bureau, ha fondato poi una sua compagnia.
Dal blog Typography For Lawyers ha tratto un libro, che ha ricevuto un premio nel 2012.
L'enciclopedia online fornisce una lista dei caratteri tipografici che ha realizzato.
L'ultimo aggiornamento risale al novembre 2023, per dire che Butterick era coinvolto in molte class action contro compagnie di intelligenza artificiale come Stable Diffusion, Midjourney e DeviantArt.
Un link manda all'articolo intitolato "Incontriamo l'avvocato che guida la resistenza umana contro l'intelligenza artificiale".
L'articolo di Wired, in inglese, è interessante e dettagliatissimo. Va un po' fuori dallo scopo di questo blog, ma è pure vero che ricostruisce all'inizio il periodo tipografico della vita di Butterick in alcuni paragrafi con la sua biografia.
La sua battaglia contro l'IA riguarda i diritti di coloro che producono i contenuti utilizzati per addestrare le intelligenze artificiali.
Per le aziende, addestrare un'IA è assimilabile al processo di apprendimento di una persona. Non è vietato leggere un libro o provare a disegnare su un foglio la facciata di un edificio o canticchiare una canzone, quindi gli artisti non possono impedire alle aziende di usare le loro opere per l'addestramento dell'IA.
Ma a livello mondiale gli artisti, gli avvocati e i legislatori si stanno mobilitando e organizzando, per cui l'esito non è ancora deciso.
L'articolo si conclude con una citazione di William Morris, famoso anche per avere realizzato alcuni caratteri tipografici nell'ambito del suo progetto più ampio, il movimento Arts and Crafts. Morris diceva che non rifiutava la tecnologia, ma voleva che questa fosse gestita.
L'articolo di Wired è uscito nel novembre 2023, e non ha ricevuto commenti da parte dei lettori del sito.
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