Le presse Adana all'International Printing Museum. Traduzioni automatiche non richieste. Nomenclature varie
Periodicamente Mark Barbour, fondatore e curatore dell'International Printing Museum di Carson, California, carica su Youtube dei video nei quali presenta i vari pezzi esposti nel museo e ne ricostruisce la storia e ne mostra il funzionamento.
L'ultimo video risale a due mesi fa e riguardava le presse Adana, che su questo blog abbiamo già incontrato varie volte. Si trattava di piccole presse da tavolo, destinate agli hobbisti o a quelle piccole attività commerciali che volevano stamparsi in proprio biglietti da visita o volantini.
In America a questo scopo si usavano le presse Kelsey, mentre le Adana arrivavano dalla Gran Bretagna.
Le Adana sono riconoscibili per il colore rosso, la leva con l'estremità di forma sferica, e per il piatto in alto su cui veniva messo l'inchiostro, che veniva trasferito sulla forma, montata in verticale, in automatico grazie a due rulli.
La macchina non funzionava con l'elettricità ma solo con la forza dell'operatore. Premendo una leva verso il basso si avvicinavano i piani che dovevano comprimere il foglio sulla forma inchiostrata e contemporaneamente si spostavano i rulli dalla forma al calamaio. Il movimento opposto riportava tutto allo stato iniziale. Lo stampatore doveva togliere a mano il foglio stampato e mettere in posizione il foglio bianco.
La pressa che si vede nel video non è molto fluida nel movimento, a causa dell'inattività.
Il museo conserva anche una prima rudimentale pressa prodotta dalla stessa azienda. Era in legno, e ferro, non aveva il disco, i caratteri venivano disposti su un piano orizzontale e il foglio in verticale. Il rullo scorreva avanti e indietro, i due piani si richiudevano a cerniera.
Una versione evoluta di questo schema era alla base delle presse prodotte fino agli anni Cinquanta, tutte in ferro, con due rulli e disco girevole.
Una cosa triste è che oggi per la prima volta il video mi è partito in lingua italiana, senza che io abbia fatto niente al browser per cambiare le impostazioni.
A quanto pare l'intelligenza artificiale sta penetrando nelle nostre attività senza essere richiesta, prendendo per noi decisioni indesiderate.
Barbour parla in inglese, e io capisco l'inglese. Ma visto che mi collego a Youtube con un browser in lingua italiana, il sito ha pensato che desiderassi la traduzione del filmato. E me l'ha fornita. Non si parla di sottotitoli in italiano, ma di una voce sintetica che scandisce il testo della traduzione automatica.
"In questo momento ci stiamo ancora concentrando sulle piccole ma potenti presse e un nome nelle piccole presse da stampa un presse da stampa per hobby che sicuramente in America uh le persone riconoscono sicuramente il nome Kelsey Kelsey Excelsie e Kelsey ha realizzato piccole presse uh fino ad alcune presse da pavimento".
Insomma c'è un curatore competente e simpatico, e il sito decide di farlo parlare in italiano come un deficiente.
Come mai a Youtube è venuto in mente di imporre questa tecnologia quando è più che evidente che non è ancora arrivata ad un livello sufficiente a fornire un risultato di qualità, non me lo spiego.
Al momento l'IA sta portando semplicemente a un deterioramento della conoscenza. In un post che ho scritto alcuni giorni fa contrapponevo appunto i video di Barbour a quelli realizzati con l'intelligenza artificiale, che di solito contengono discorsi ideologici, banali e ripetitivi, corredandoli con immagini fantasiose di presse quattrocentesche in metallo di forme improbabili che funzionano in automatico nelle vie della città. Cose senza senso. Vuoi mettere sentire queste schifezze e sentire invece un discorso umano come quello dei video di Barbour?, dicevo. Ora l'IA arriva a rovinare anche il piacere di sentir parlare una persona in carne ed ossa. Fortunatamente cliccando sulle impostazioni è ancora possibile riattivare l'audio in lingua originale, che secondo me dovrebbe essere sempre l'opzione di default.
Su Pinterest si può vedere una foto della pressa Kelsey con nomenclatura in inglese. La leva, "lever", non era singola, ma doppia, con barra che univa le due estremità. Il colore era grigio anziché rosso, ma il metodo di funzionamento era lo stesso della Adana, con la forma montata in verticale e il piatto obliquo in alto, con due rulli per l'inchiostratura.
Il calamaio si chiama "ink plate", la forma viene montata nel "chase bed", i rulli si chiamano "rollers" e vengono sorretti dai "trucks". Infine c'è una freccia che indica i "grippers" (pinze), che sono dei ferretti che servono per tenere fermo il foglio, mi sembra.
Sempre su Pinterest si trova un altro schema ancora più dettagliato, dove sono indicate anche le molle presenti. Qui la leva viene chiamata "handle", maniglia.
Peccato che sia tutto in inglese. No, non voglio la traduzione automatica arbitraria. Immagino semplicemente che all'epoca i tipografi italiani dovevano avere una loro terminologia, solo che sul web si trova poco e niente in proposito.
Tra le immagini consigliate, Pinterest ne suggerisce una con la nomenclatura del carattere tipografico in metallo, in lingua spagnola. Qui per occhio della lettera (ojo de la letra) si intende l'altezza della lettera, dall'estremità inferiore a quella superiore, da non confondere col corpo del carattere che è l'altezza del blocchetto di metallo su cui è realizzata la lettera in rilievo.
Ho usato il termine altezza, ma è fuorviante. Visto che i caratteri venivano disposti su un piano, con la faccia dov'è la lettera in rilievo rivolta verso l'alto, l'altezza (altura) si misura da questa faccia fino al piano d'appoggio. L'altezza tipografica (altura tipografica) è data dall'altezza del blocchetto (altura del àrbol) più l'altezza della parte in rilievo (altura del ojo).
Sul disegno vengono indicate la spalla inferiore, destra e superiore (hombro), cioè la distanza tra l'estremità della lettera e il lato del blocchetto.
La tacca laterale viene chiamata "cran", quella alla base "henditura".
Il "grueso" sarebbe la larghezza del blocchetto, che come sappiamo nei normali caratteri tipografici in uso varia da una lettera all'altra: di solito le W sono più larghe delle I. Fanno eccezione i caratteri monospace, dove tutte le lettere hanno la stessa larghezza.
Una nomenclatura del carattere tipografico in lingua italiana comunque c'è su Pinterest, che la consiglia tra le immagini simili. Qui la parte incavata che si trova di lato viene chiamata "tacca" mentre quella in basso viene chiamata "scanalatura". Il blocchetto di metallo viene chiamato "fusto". Il "piede" è la parte del carattere che poggia sul piano, "pie" in spagnolo.
Nella nomenclatura in inglese la tacca diventa "nick" e la scanalatura è "groove". Invece di parlare di piede si parla di piedi, "feet". Viene indicato anche il "counter", ossia la parte vuota tra le aste (in italiano credo sia "controforma") e la "beard", barba, che forse è la parte laterale delle aste in rilievo.
L'altezza tipografica rispetto al piano viene chiamata "heigt to paper" e viene specificata nel dettaglio, dato che era standard: .918 in. (0,918 pollici).
Quel numero era iconico nel mondo tipografico anglosassone, tanto che qualche anno fa alcuni appassionati avevano fissato una data annuale nella quale svolgere iniziative di divulgazione sulle vecchie tecniche tipografiche dirette a curiosi e appassionati: il 18 settembre, ossia 9-18 secondo il sistema americano per cui viene indicato prima il mese, proprio in onore della misura .918.
E i tipografi italiani avevano un loro numero di riferimento? L'altezza dei caratteri venduti in Italia era la stessa di quelli venduti nel mondo anglosassone? Non l'ho mai saputo.
0,918 pollici corrisponde a 23,17 millimetri circa.
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