La scelta dei font
Sto leggendo lo Sheepbook di Erik Spiekermann, che può essere scaricato gratuitamente da Google Fonts nella sezione Knowledge.
Il terzo capitolo è dedicato alla scelta dei caratteri. I font sono come le scarpe: se la forma del piede rimane la stessa, la scarpa da scegliere deve essere diversa a seconda se dobbiamo andare a ballare, a correre, a scalare una montagna e così via. Lo stesso discorso vale per i caratteri tipografici: a parità di parole, la scelta di un font anziché di un altro aggiunge o toglie qualcosa al messaggio, in termini di leggibilità ma anche di emozioni.
Spiekermann dedica varie pagine a presentare alcuni font adatti a comunicare emozioni particolari: dubbio, sorpresa, gioia, rabbia. Per ogni carattere viene mostrata soltanto una parola per rendere l'idea, ma quello che conta è che questo capitolo insegna qual è lo spirito con cui bisogna affrontare questo problema.
Più avanti viene fornito un sistema di classificazione dei caratteri tipografici che li divide in categorie univoche. Solo uno dei tanti sistemi utilizzati, e neanche il più usato. Spesso i grafici hanno bisogno di scegliere non tra un veneziano, un garalde e un transizionale, ma tra un font adatto per le feste, uno per creare l'atmosfera western, uno per comunicare eleganza. Sulle principali piattaforme le ricerche vengono fatte per tag: ad ogni carattere tipografico vengono associate delle parole chiave che ci permettono di arrivare direttamente a quello che ci serve. Se cerchiamo "fantascienza" o "medio evo", in inglese visto che è la lingua usata su quelle piattaforme, arriviamo direttamente a quello che ci serve. O almeno, dovremmo arrivarci. La realtà è che i tag vengono assegnati in maniera completamente arbitraria, quindi c'è chi disegna un Caslon e lo tagga "party" insieme ad altri 50 tag, e chi disegna un Bauhaus e lo tagga a malapena "sans serif". Il risultato è che qualsiasi ricerca ci restituisce metà dei risultati che non c'entrano nulla con quello che ci serve, e il carattere che fa al caso nostro magari non compare.
Il capitolo si conclude presentando alcuni font basati su un numero limitatissimo di pixel, necessari per le visualizzazioni su display in bassa risoluzione, come quelli delle caffettiere o delle radio. In quel caso le possibilità sono limitatissime, eppure aggiungere o togliere un pixel può portare a risultati molto diversi.
Il capitolo contiene vari spunti interessanti. In una delle pagine si può vedere la nomenclatura dei caratteri in metallo che si usavano una volta. La parola "kern" si riferisce al tratto di una lettera che va a sovrapporsi allo spazio vuoto della lettera successiva. In questo caso è l'estremità superiore della f. Se nei caratteri in metallo questo era vero, non lo è più nei caratteri digitali, nei quali i tratti non solo possono invadere lo spazio vuoto delle lettere adiacenti, ma possono anche sovrapporsi ai tratti di queste, senza implicare kerning. Nei caratteri digitali la parola kerning si riferisce all'esistenza di "coppie di crenatura" o "kerning pairs" ossia combinazioni di due lettere che devono essere avvicinate tra di loro quando sono consecutive. A decidere quale lettere devono essere crenate è il disegnatore stesso, che deve aggiungere le opportune impostazioni nel suo file.
Nel testo in viola nella stessa pagina Spiekermann si dedica a spiegare la distinzione tra "typeface" e "font", che nel mondo anglofono suscita aspre discussioni dato che i non addetti ai lavori spesso le usano come sinonimi.
"Noi disegniamo typeface e produciamo font", dice l'autore.
"Un font era un preciso gruppo di lettere di un carattere assemblato dalla fonderia per la vendita", dice il testo, riferendosi all'epoca dei caratteri in metallo. Si trattava di lettere nello stesso stile, nella stessa dimensione e in una quantità limitata, che dipendeva dalla lingua utilizzata. Alle tipografie italiane venivano forniti font che avevano un gran numero di c e z, ma pochi esemplari di k e v, a differenza di quello che avveniva in Inghilterra.
Credo che all'epoca in Italia non si usasse la parola font, che è arrivata soltanto in epoca informatica, bensì si parlasse di "polizze".
Tutti questi concetti cambiano nel corso del tempo. All'epoca di Bodoni ad esempio i caratteri in grassetto o in versione larga avevano un nome diverso rispetto a quelli da usarsi in funzione di Regular, così come pure il nome cambiava a seconda della dimensione, e anche il disegno, entro certi limiti. Un Bodoni da usarsi per i titoli era un carattere diverso da quello da usarsi per le note. A parte il fatto che era nello stesso stile, aveva proporzioni e dimensioni diverse, un nome diverso e doveva essere acquistato separatamente.
Così come separatamente doveva essere acquistato un set di lettere greche, se bisognava aggiungere nel testo delle parole in greco.
Coi font scalabili digitali, il concetto di font si è staccato da quello di corpo. Io posso inserire nella stessa pagina scritte più grandi e più piccole senza dovermi procurare un altro font: basta un solo file per potere lavorare in tutte le dimensioni che voglio.
Non solo: posso inserire delle scritte in greco senza cambiare font. Nel Times New Roman non sono presenti soltanto le lettere latine, ma anche quelle greche, cirilliche, arabe, ebraiche e armene.
Con l'invenzione recente dei font variabili, è possibile inserire vari stili diversi all'interno dello stesso file. Lo spessore delle aste o la larghezza delle lettere diventa un "asse" del font che può essere variato a piacimento così come cambiamo il corpo. Se creo un'animazione in cui un testo passa dal peso 100 al peso 800 non dico di avere cambiato 700 font, visto che ho attinto le forme dallo stesso file.
Coi font digitali poi il numero delle lettere fornite non ha nessuna importanza: nel file c'è un solo esemplare di ogni lettera che può essere utilizzato un numero illimitato di volte.
Tutte queste considerazioni nel libro non ci sono, dato che non si tratta di un trattato ma di un testo introduttivo.
Persone diverse possono utilizzare gli stessi concetti in maniera diversa, oppure nella stessa maniera ma senza avere fatto mente locale sulla definizione precisa del loro modo di pensare. Nei programmi di desktop publishing c'è una casella per scegliere la "face" e una per scegliere lo "style", quindi si finisce per far coincidere il nome della famiglia col concetto di "typeface" e il singolo stile col concetto di "font".
In italiano entrambe le parole vengono tradotte con "tipo di carattere", che può essere abbreviato con la parola "carattere", che è anche la traduzione della parola "character" che indica il singolo glifo o la singola battuta in un testo. O che indica il personaggio in uno spettacolo teatrale.
Tutto ciò crea grandi grattacapi ai traduttori automatici, che forniscono traduzioni che non significano assolutamente niente, ad esempio nei sottotitoli di Youtube nei filmati dedicati alla tipografia.
Quando qualcuno sta spiegando, in inglese, che c'è differenza tra font e typeface perché font indica questo e typeface indica quest'altro, il traduttore dice che carattere e carattere sono due cose diverse perché carattere significa una cosa e invece carattere significa tutt'altra cosa. Puro nonsense. Così come quando si trovano dei testi in cui si dice che Gutenberg aveva realizzato "personaggi" in metallo ("characters").




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