Font variabili

Il capitolo 10 dello Sheepbook di Erik Spiekermann, scaricabile gratuitamente da Google Fonts nella sezione Knowledge, è dedicato ai font variabili. 

Si tratta di una tecnologia molto recente nel campo della tipografia: è stata incorporata nel formato OpenType soltanto nel 2016. L'anno prossimo saranno 10 anni. 

In precedenza ogni stile era contenuto in un file a parte. La forma base delle lettera era contenuta in un file chiamato Regular, la forma grassetta in un file chiamato Bold, e così via per la versione Condensed o Extended, o per i pesi Thin o Black. A cui sono da aggiungere i corsivi. Una famiglia di font poteva essere costituita da un numero spropositato di file, difficili da organizzare e senza passaggi graduali tra una versione e l'altra. 

Con i font variabili invece le varie versioni vengono organizzate sulla base di assi che possono essere regolati in maniera graduale, e tutte le informazioni sono contenute in un solo file. 

In questo modo le possibilità di personalizzazione sono pressoché infinite. Un grafico può sperimentare, usando gli appositi strumenti software, regolando il valore di ciascun asse e sistemando le scritte col peso, la larghezza, l'inclinazione giusta a seconda dell'effetto che vuole ottenere rispetto alle scritte circostanti e allo spazio a disposizione. 

E ha a disposizione anche i valori intermedi: tra Regular e Bold ci sono 200 livelli intermedi, dato che in mezzo c'è anche il peso Semi-Bold. Questo permette di creare effetti statici particolari, ad esempio una scritta che diventa più pesante gradualmente mano a mano che si procede nel testo, ma anche dinamici, nel senso di creare delle animazioni con lettere gommose che si allargano e si restringono, si appesantiscono e si alleggeriscono. 

Nel mondo anglofono c'è sempre stato un po' di dibattito a proposito della differenza tra font e typeface, a volte usati come sinonimi ma in realtà parole con un significato diverso. 

Una delle varie definizioni identificava il typeface con la famiglia e il font con lo stile, e quindi con il file. Ad esempio, io posso fare una scritta usando il typeface Arial, ma se volessi rendere le lettere molto più pesanti dovrei procurarmi il font Arial Black, uno stile a parte in un file a parte. 

Con i font variabili questa distinzione salta: dato che l'intera famiglia sta nello stesso file, procurandomi un "font" variabile posso usarlo in tutti gli stili disponibili. 

Qualcosa di simile era successo quando erano stati inventati i font scalabili: prima la dimensione era parte integrante della definizione di font, acquistare una polizza di Garamond non aveva senso se non specificavi in che dimensione la volevi. Coi font scalabili ti procuri un font, che sta in un unico file, e puoi utilizzarlo in tutte le dimensioni. 

I font variabili possono avere un numero di assi diverso, a scelta del disegnatore. Il font più popolare su Google Fonts, il Roboto, ha solo due assi, quella del peso e quella della larghezza. Il peso base è impostato a 400 ma può variare da 100 a 900, mentre invece la larghezza è impostata a 100 e può scendere fino a 75. 

Esiste una versione corsiva, ma l'inclinazione è fissa. 

Il Roboto è un font pensato per un uso abbastanza tradizionale. Nei font più fantasiosi il disegnatore può sbizzarrirsi inventando assi più innovativi. Ad esempio il Tilt Prism di Andy Clymen, pure disponibile gratuitamente sulla stessa piattaforma, ha due assi: "Rotation in X" e "Rotation in Y". 

Le aste delle lettere sono costruite come fossero tetti di case con due spioventi, e sono viste frontalmente. Regolando un asse o l'altro si riesce a ruotare la prospettiva, in modo da simulare la visione da angoli diversi. Ogni asse può assumere valori da -45 a +45. 

Non c'è bisogno di installare il file per provare l'effetto: su Google Fonts, nella scheda Type Tester  è possibile regolare a piacimento i due cursori. 

Volendo scaricarlo e usarlo in locale, bisogna assicurarsi di avere un software in grado di gestire i font variabili. 

Un altro parametro da prendere in considerazione è quello dell'optical size, ossia la possibilità di correggere il disegno delle lettere a seconda della dimensione a cui devono essere visualizzate. 

Ai tempi dei caratteri in metallo era più che ovvio che le lettere dovevano avere forme diverse a seconda della dimensione. Quando Bodoni disegnava i suoi caratteri in piccolo si regolava in un certo modo, su larghezze, contrasto, estensione di tratti ascendenti e discendenti, dettagli; quando disegnava gli stessi caratteri in versione display, si regolava diversamente perché aveva la certezza della dimensione a cui sarebbero stati visualizzati. 

Quando sono stati inventati i font scalabili digitali, questo aspetto è passato un po' in secondo piano: un utente che ha il Times New Roman può usarlo indifferentemente per titoli, testi e note a piè pagina in dimensioni diverse. 

Ma ora che le possibilità aumentano grazie all'evoluzione del software, si sta rivalutando la possibilità di inserire nel file forme delle lettere ottimizzate per grandezze diverse. 

Il Glossario di Google Fonts ha una scheda dedicata all'Optical Size, con un'immagine per chiarire meglio il concetto. 

E nella sezione Knowledge c'è un articolo dettagliato che spiega come regolarsi a questo proposito, anche nei font variabili dove l'Optical Size può essere una variabile come le altre, se il disegnatore ce l'ha inserita. 

Su Wikipedia in inglese esiste un paragrafo intero dedicato all'Optical Size. Nella versione italiana dell'articolo, scorrendola rapidamente, non mi pare di vedere riferimenti espliciti all'argomento. 

Sul web trovo ben poco in lingua italiana. Copilot mi dice che optical size può essere tradotto come "dimensione ottica", ma cercando con Google i primi articoli che vengono fuori parlano di tutt'altro.

Comunque, anche se non c'entra niente con l'argomento di questo post, trovo un articolo interessante su Online Printers che dà un po' di definizioni che possono lasciare disorientati i non addetti ai lavori. 

Ad esempio, la fatidica domanda: a che dimensione corrisponde il corpo del carattere? Quanti millimetri occupa una scritta in corpo 12?

Se è vero che a ogni punto tipografico corrisponde una misura verticale ben precisa in millimetri, è vero anche che la misurazione non viene fatta su nessuno degli elementi specifici di nessuna lettera, ma include anche una certa quantità di spazio vuoto sopra e sotto le lettere. 

Si può misurare l'altezza della maiuscola o l'altezza dell'occhio con appositi righelli trasparenti chiamati tipometri, di cui il sito mostra una foto, ma per ottenere il corpo del carattere da usare in digitale bisogna fare dei calcoli: conoscendo il rapporto tra corpo e altezza dell'occhio o della maiuscola in uno specifico carattere digitale si può ottenere un risultato esatto. In caso contrario si deve fare una stima che si avvicina soltanto al valore reale, e poi magari regolarsi in maniera empirica, ingrandendo o rimpicciolendo le scritte sul monitor fino a ottenere la stessa misura. 

L'altezza dell'occhio viene chiamata dal sito "hp", perché si misura col tipometro dall'estremità superiore del tratto discendente della lettera h a quella inferiore del tratto discendente lettera p che compare sulla stessa riga.

Non corrisponde al corpo del carattere, sia perché magari la spalla superiore può essere più alta per via degli accenti da mettere sopra le maiuscole, sia perché può esserci più o meno spazio bianco sotto le lettere. Mi pare di ricordare che nel Papyrus non solo gli accenti sforano in alto, ma anche la p sfora in basso, rispetto alle linee invisibili tra le quali dovrebbe essere misurato il corpo. 

Per rendere l'idea di cosa si intende per corpo del carattere vengono mostrate delle immagini in cui un testo viene selezionato in un editor. In questi casi è facile constatare che attorno alla parola selezionata si forma un rettangolo colorato. Ecco, il corpo dovrebbe essere misurato dal lato superiore a quello inferiore di questo rettangolo. 

Nella realtà in molti software il rettangolo non è alto quanto il corpo ma quanto l'interlinea, che comprende uno spazio a
ggiunto tra una riga e l'altra che varia in automatico a seconda di quanto sono ingombranti le lettere.

Può capitare di imbattersi in questo fenomeno anche per sbaglio: se affianchiamo un testo in Times New Roman a uno in Arial Black, nella stessa dimensione, notiamo che nel secondo caso lo stesso numero di righe occupa molto più spazio in verticale. Se entrambe le scritte sono in corpo 12, e il corpo è la misura in verticale delle lettere, lo spazio verticale occupato non dovrebbe essere lo stesso? 

Evidentemente no. 


Qui vediamo lo stesso testo scritto in corpo 12 usando due font diversi: Times New Roman e Arial Black. Il fatto che nel secondo caso le parole siano più larghe è prevedibile, ma qui notiamo che anche in verticale le righe occupano più spazio. Perché, se la dimensione è la stessa? Il fatto è che il software aumenta l'interlinea in maniera diversa a seconda delle caratteristiche di ciascun font. Comunque si può intervenire sulle impostazioni di default per fissare l'interlinea in maniera diversa. 


Le stesse lettere in Times New Roman e Impact. Anche se la dimensione del carattere è la stessa, le altezze sono diverse. Questo perché non esiste una proporzione fissa per tutti i font che lega corpo, altezza della maiuscola e occhio medio. Se misuriamo l'altezza di una scritta sulla prima pagina di un giornale o su una scatola di biscotti non possiamo dedurre quale dimensione esatta è stata impostata in quel caso, fino a che non ci procuriamo lo stesso font o almeno qualche informazione sulle proporzioni specifiche che lo riguardano. 


In digitale non ci si trova mai concretamente di fronte al corpo del carattere in sé. Quando si impagina un testo, le linee superiore e inferiore sono invisibili, mentre quando si disegna un font la loro distanza viene misurata in unità, ed è fissa visto che si riferisce solo al piano cartesiano del disegno. 

All'epoca dei caratteri in metallo invece il corpo era qualcosa di concreto: ogni lettera era realizzata in rilievo su un blocchetto di metallo, per cui bastava misurare con un apposito strumento l'altezza del blocchetto, parallelamente alla lettera, per conoscerne il corpo senza bisogno di calcoli. 

"Quando Gutenberg ricorreva a un carattere da 12 punti, questa dimensione corrispondeva a quella del corpo, non della lettera stampata", spiega Online Printers. "Ma non chiamandoci Johanes Gutenberg e non dovendo (fortunatamente) portarci dietro la nostra cassetta tipografica, queste informazioni rappresentano semplici curiosità al giorno d'oggi. Nell'era dei caratteri digitali infatti il corpo materiale non esiste più". 

L'esempio è molto simpatico e rende l'idea, ma storicamente non è del tutto accurato.

Il concetto di punto tipografico non è nato con la tipografia, ma tre secoli più tardi. Il sistema ideato da Didot risale al 1770 circa, mentre Gutenberg lavorava intorno al 1450. 

Prima di Didot le fonderie vendevano i caratteri sulla base di nomi generici che si riferivano a frazioni di misure di uso comune, dato che non si usavano neanche i numeri con la virgola. Ad esempio nel mondo anglofono la dimensione "pica" valeva un settantaduesimo di piede. E solo in seguito venne divisa in 12 punti tipografici. 

Inoltre l'attività di Gutenberg durò soltanto pochi anni, quindi l'inventore riuscì a produrre soltanto una quantità limitata di caratteri tipografici pensati per scopi specifici. Credo solo un paio di versioni dello stesso "font", in stile gotico, per impaginare libri di testo, indulgenze, pamphlet e la Bibbia. 

Ho provato a fare qualche stima, tempo fa, dato che sembra che nessuno si sia posto il problema, e il risultato era che la dimensione doveva essere vicina ai 20 punti tipografici. 

Insomma, a voler essere pignoli, credo che Gutenberg non abbia mai maneggiato un carattere in corpo 12.


In conclusione, ricapitoliamo un po' di storia dei caratteri tipografici. 

In origine ogni stampatore si fabbricava i caratteri in proprio. Non esistevano i punti tipografici, non esistevano i nomi propri dei caratteri dato che non dovevano essere venduti, e non esistevano le famiglie, ossia stili diversi da vendere sotto lo stesso nome. 

In un secondo momento nacquero le fonderie, che misero a punto i cataloghi di caratteri da mettere in vendita. Non c'erano nomi propri e dimensioni in punti, ma solo nomi generici ad indicare la dimensione, e numeri per ordinare le varie versioni. Dal numero non si poteva capire quali caratteristiche avevano le lettere. La versione 2 poteva essere la semi-bold, o la bold, o la extended della 1, o una semplice variante. 

A fine Settecento vennero inventati i punti tipografici, che entrarono in uso più tardi. Bodoni in Italia iniziò a dare dei nomi propri ai suoi caratteri, e iniziò a sviluppare in embrione un'idea di famiglia di caratteri, accorpando il corsivo al romano sotto lo stesso nome, ma prima che questi cambiamenti iniziassero ad essere accettati in maniera diffusa bisognò aspettare la fine dell'Ottocento. 

Nel corso del Novecento le fonderie vendevano comunemente famiglie di caratteri con nome proprio e in stili diversi, disponibili in tutte le dimensioni sfruttabili a livello commerciale (esistevano caratteri in 72 punti, ma non in 71). Per i tipografi, il corpo del carattere era parte integrante della definizione del font: acquistando il Times New Roman corpo 12 si poteva stampare solo in corpo 12. Per stampare in corpo 8 bisognava acquistare il Times New Roman 8, che era un font diverso e aveva anche le proporzioni ottimizzate per quella dimensione specifica. Inoltre le lettere degli alfabeti stranieri dovevano essere acquistate in font a parte, dato che la loro produzione aveva un costo e si trattava comunque di oggetti ingombranti, visto che erano in metallo. Un utente che non li utilizzava non li avrebbe accettati neanche se gli fossero stati dati gratis. 

Alla fine del Novecento, con l'arrivo dei computer, vengono inventati i font scalabili: l'utente si procura un solo file e lo può utilizzare in qualunque dimensione, anche quelle che non erano mai esistite prima, come 71,3. Dato che i computer hanno una grande quantità di memoria disponibile, nei font vengono inclusi anche gli altri alfabeti, che non danno nessun fastidio. Solo il Times New Roman include anche le lettere arabe, ebraiche, greche, cirilliche e armene. 

Si possono fare scritte grandi in italiano e piccole in greco senza bisogno di cambiare "font". 

Per fare una scritta in grassetto c'è bisogno di un altro file, quindi di un altro font, anche se comunque i software sono attrezzati per sopperire in alcuni casi, in maniera un po' rudimentale, permettendo di realizzare scritte più pesanti, più strette, o outline o 3d a seconda delle esigenze. 

L'ultima evoluzione dei caratteri è quella dei font variabili, dove un'intera famiglia è racchiusa in un unico file.  

E le frontiere ulteriori? Si sta lavorando in due campi: quello dei font animati e quello dei font a colori. 

Nel primo caso di solito parliamo di caratteri che possono essere usati non nei software per l'impaginazione ma in quelli per il montaggio. Ogni lettera è animata in un certo modo, in maniera che il montatore può concentrarsi solo sull'apparizione, la velocità e lo spostamento delle lettere, senza bisogno di ingaggiare un disegnatore per animarle. Qualcosa di simile si può ottenere anche coi formati di font tradizionali, trattando l'animazione come l'asse di un font variabile. Ho già visto che qualche disegnatore ha realizzato con questo sistema lettere che si tracciano gradualmente a mano, per insegnare ai bambini a scrivere.  

Nel secondo caso abbiamo già una discreta dotazione di font a colori, anche se c'è da migliorare sul lato software. Oggi posso scaricare font in cui ogni lettera è disegnata con tre o quattro colori diversi, ma non posso personalizzare a piacimento questi colori coi pulsanti presenti nelle app o coi css di una pagina web. Se le lettere sono disegnate col motivo della bandiera americana, non avrebbe senso cambiare i colori. Ma se si tratta solo di cambiare il colore di una cornice per adattarlo al contesto, il non poterlo fare è un po' una seccatura. Vedremo come verrà risolto il problema nei prossimi anni. 

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